Filippo Romolo Neri

Il 22 luglio 1515 venne battezzato nel fonte della Chiesa di San Giovanni a Firenze un bambino chiamato Filippo Romolo. Era nato appena il giorno prima dalla madre Lucrezia, secondogenito di Francesco Neri, venuto alla luce due anni dopo la sorella Caterina. Lo seguiranno Elisabetta e Antonio, che però morirà appena nato.

I Neri provenivano dalla valle sopra all’Arno e grazie al loro lavoro di notai si erano acquistati una certa posizione nella Firenze del ‘400. Come piccoli nobili avevano uno stemma con tre stelle d’oro in campo azzurro e un sepolcro gentilizio in S. Michele Bertelde, oggi San Gaetano. Anche Francesco Neri esercitò la professione notarile, ma solo a partire dal 1524, alla già bella età di 48 anni, e più per forza che per amore, attratto maggiormente dall’alchimia che dalle scartoffie legali. Pur di entrare in possesso della pietra filosofale spese tutto il suo patrimonio in alambicchi riuscendo a trovare, invece dell’oro, solo una dignitosa povertà. Questa mania era temperata da una buona devozione al Signore e dalla venerazione per Girolamo Savonarola, il famoso predicatore domenicano che in quegli anni andava predicando: «La nostra Chiesa si presenta esteriormente molto bene, con sfoggio di bei paramenti e liturgie solenni… La gente si nutre di paglia… Nella Chiesa primitiva i calici erano di legno e i prelati d’oro, oggi i calici sono d’oro e i prelati di legno..». Cercarono di corrompere questo frate rinnovatore, ma egli preferì il rosso del martirio a quello della berretta cardinalizia. Anche il nostro Santo, pur essendo di tutt’altro carattere, resterà sempre legato a questa controversa figura spirituale e disegnerà su un suo ritratto un’aureola, canonizzandolo prima del tempo.

Nel 1520 Filippo perdette la madre e suo padre sposò Alessandra di Michele Lensi, che fu tutt’altro che un’acida matrigna: amò infatti il suo figlio adottivo di tenero amore, fino a soffrire enormemente per la sua partenza da Firenze. Anche il piccolo Filippo si lasciava facilmente amare per il suo buon carattere: i ricordi della sorella lo descrivono obbedientissimo e “burlevole” (cioè di buon umore), sempre disponibile nei confronti del padre: “Mai fece cosa per la quale lo gridasse”. Certo, non dobbiamo pensarlo già troppo santo: una volta gettò la sorella Caterina da una rampa di scale, poiché lo stava infastidendo mentre pregava. Forse per la pena del contrappasso anche lui cadrà dalle scale della cantina insieme all’asino che lo stava portando. Rimase quasi completamente schiacciato dalla bestia (“non si vedeva altro che un braccino”), e quando lo tirarono fuori, pensandolo ormai morto, lo trovarono invece sano e senza alcuna ferita. Per tutta la vita ringrazierà il Signore di averlo scampato da una fine così ingloriosa.

 

 

I ricordi della sorella e degli amici ci narrano anche della sua passione per il ben vestire “aveva una mantella molto pulita”, e della sua vanità “era di bellissime fattezze, i suoi capelli erano lunghi e portava una catenina d’oro sopra l’abito”, ma anche, come già detto, del suo carattere pacifico e allegro, che gli attirò addosso il soprannome di “Pippo Buono”.