LA ROSA BIANCA
I ricordi di Inge Scholl
La patria! Che altro era se non la terra piú grande di tutti coloro che parlavano la medesima lingua e facevano parte dello stesso popolo? L'amavamo e non ne sapevamo quasi il perché. Non se n'era parlato molto, prima d'allora. Ora però, ora la parola " patria " veniva scritta a lettere grandi e splendenti nel cielo. E Hitler ‑ sentivamo dire ovunque ‑ Hitler voleva far sí che questa patria divenisse grande, felice e prospera. Voleva fare in modo che tutti avessero pane e lavoro. Si era prefisso di non concedersi riposo fin quando ogni singolo tedesco non fosse stato libero, indipendente e felice nella sua patria. Questo ci sembrava un bene, e qualunque contributo potessimo dare lo avremmo dato volentieri. Un'altra cosa poi ci attraeva e ci trascinava con forza misteriosa, ed erano le colonne compatte di giovani che marciavano con le bandiere al vento, con gli occhi fissi in avanti, e il rullo dei tamburi, e i canti. Questa comunità non era forse qualcosa di travolgente? Nessuna meraviglia quindi che entrassimo tutti nei ranghi della Gioventú hitleriana, Hans e Sophie e noi altri fratelli.
Eravamo con loro anima e corpo, e non riuscivamo a comprendere che nostro padre non fosse felice ed orgoglioso di darcene il permesso. Era invece molto sdegnato e diceva a volte: «Non credete a quello che vi dicono; sono dei lupi e dei ciarlatani, e abusano terribilmente del popolo tedesco». E qualche volta paragonava Hitler al pifferaio di Hameln, che aveva condotto i fanciulli alla perdizione incantandoli col suo flauto. Ma il babbo parlava al vento e il suo tentativo di trattenerci si infranse contro il nostro entusiasmo giovanile.
Facevamo delle escursioni con i camerati della Gioventú hitleriana e percorrevamo in lunghe marce la nostra nuova terra, cioè la montagna sveva.
Compivamo delle corse lunghe e faticose, ma non ci pesavano: eravamo troppo entusiasti per ammettere di essere stanchi. Non era forse una cosa grande trovarsi d'un tratto ad avere qualcosa in comune, un legame con dei ragazzi che diversamente non avremmo forse mai avuto occasione di avvicinare? Ci incontravamo alle serate dedicate alla nostra regione, ove si faceva della lettura ad alta voce e si cantava, o giocavamo; oppure eseguivamo lavoretti artigianali di vario genere. Ci si diceva che dovevamo vivere per una grande causa. Ci prendevano sul serio, stranamente sul serio; e questo ci dava un incitamento particolare, ci riempiva di orgoglio. Ci sembrava di far parte di una grande organizzazione bene articolata, che comprendeva tutti e prendeva in considerazione ciascuno, dai ragazzi decenni agli adulti. Sentivamo di essere partecipi di un processo evolutivo, di un movimento che di una massa amorfa faceva un popolo. Alcune cose che c'infastidivano o ci lasciavano la bocca amara si sarebbero poi messe a posto, pensavamo.
« Sarebbe tutto cosí bello! C'è solo la questione degli ebrei che non mi va giú! », esclamò un giorno, piuttosto all'improvviso, una camerata quindicenne, mentre riposavamo sotto la tenda eretta sotto un vasto cielo stellato, dopo un lungo giro in bicicletta. La comandante disse che Hitler sapeva quello che faceva e che per amore della grande causa si dovevano accettare anche cose difficili e incomprensibili. La ragazza non rimase però del tutto soddisfatta di questa risposta; alcune compagne le diedero ragione, e dalle loro parole trapelò d'un tratto quello che si diceva nelle loro famiglie. Passammo una notte inquieta sotto la tenda: ma dopotutto eravamo troppo stanche. E l'indomani la giornata fu indescrivibilmente bella e piena di avvenimenti. I discorsi fatti durante la notte erano per il momento dimenticati.
Nei nostri gruppi regnava la solidarietà che suole esservi fra amici. Il cameratismo era veramente qualcosa di bello.
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