Filosofi, ritorno a Pascal
Numerosi pensatori cristiani, da Gabriel Marcel a Luigi Pareyson e Pietro Prini, rivalutano la linea del paradosso propria dell'autore dei «Pensieri» e di Kierkegaard: nuove domande nevralgiche anche per la teologia
di Dario Antiseri
«Noi conosciamo Dio soltanto per mezzo di Gesù Cristo (...)». «Il Dio dei Cristiani non è semplicemente un Dio autore delle verità matematiche e dell'ordine cosmico (...) Tutti coloro che cercano Dio fuori di Gesù Cristo, e che si arrestano alla natura, o non trovano nessuna luce che li soddisfi o riescono a trovare un mezzo di conoscere e servire Dio senza mediatore; e così cadono o nell'ateismo o nel deismo: due cose che la religione cristiana aborre quasi in egual misura (...)». «Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal comune modo di pensare degli uomini e così astruse che riescono poco efficaci; e, quand'anche fossero adatte per taluni, servirebbero loro solo per il breve momento in cui hanno dinanzi agli occhi la dimostrazione; ma, un'ora dopo, temono già di essersi ingannati». Così Blaise Pascal.
Ed ecco Sören Kierkegaard. «Credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta (Mt. 7,14) (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non è soltanto buia di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l'oscurità... proprio perché gli indicatori stradali significano la direzione inversa». «Dal punto di vista cristiano la fede abita nell'esistenziale: Dio non si è esibito in veste di docente che ha alcune tesi; no, prima bisogna credere e poi comprendere». «L'idea della filosofia è la mediazione; quella del Cristianesimo, il paradosso».
Ho riportato questi pochi pensieri di Pascal e di Kierkegaard semplicemente per richiamare alla memoria una tradizione che all'interno della cultura cattolica è stata spesso denigrata come "fideismo" ed "irrazionalismo"; mentre anche in documenti ufficiali della Chiesa viene esaltata la filosofia di San Tommaso e più ampiamente la Scolastica e la Neoscolastica. Tanto che non sono stati e non sono così pochi quei cattolici i quali, seguendo itinerari filoso fici diversi dalla Scolastica e dalla Neoscolastica, si sono sentiti e magari ancora si sentono se non in colpa perlomeno in difficoltà psicologica e morale.
Da Rahner
a Ratzinger
Ma ecco l'inevitabile problema: un filosofo o un intellettuale non può essere cattolico se non è tomista? In altri termini: un seguace del pensiero di Rosmini è un eretico? E che ne è dei seguaci di Scoto? Ed esistenzialisti lontani dalle concezioni scolastiche e neoscolastiche come Gabriel Marcel, Pietro Prini o Luigi Pareyson sono fuori dalla Chiesa? Maurice Blondel sarebbe ancora vitandus? E poi: tutti quei cristiani vissuti prima della filosofia scolastica furono tutti inconsapevoli della loro fede?
Queste non sono domande peregrine. Si tratta di questioni nevralgiche per la teologia cattolica; questioni che oggi sembrano trovare risposte maggiormente convincenti nella direzione di pensatori come Pascal. E ciò mentre la tradizione neoscolastica, chiusa e intorpidita in nicchie ecologiche protette, appare sempre più come priva di forza critica e di potere esplicativo.
Nel maggio del 1996 il cardinale Joseph Ratzinger tiene a Guadalajara, in Messico, una conferenza in occasione dell'incontro tra la Congregazione della dottrina della fede e i presidenti delle commissioni per la dottrina della fede delle Conferenze episcopali dell'America Latina. La conferenza - apparsa successivamente sia su l'Osservatore Romano (27 ottobre 1996) che su La Civiltà Cattolica (quaderno 3515, IV, 1996), con il titolo La fede e la teologia ai giorni nostri - affronta questioni teologiche e filosofiche di fondo. Ed ecco la conclusione del cardinale sul tema dei rapporti tra ragione e fede: «Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Praeambula Fidei con una ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi, che procedono su questa medesima strada, ot terranno alla fine gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede, indipendentemente da quest'ultima: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli teorie filosofiche».
Nel volume Il sale della terra (San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997) l'insigne porporato scrive: «La sostanza di questa fede è che noi riconosciamo in Cristo il Figlio di Dio, vivente, incarnato e divenuto uomo; che per mezzo suo crediamo in Dio, il Dio della Trinità, creatore del cielo e della terra (...)». E davanti a Cristo bisogna decidersi: «Si tratta di una decisione (...) che riguarda l'intera struttura della vita, che ha a che fare con me stesso nella parte più profonda di me. Se costruisco la mia vita senza o contro Dio, quel che io faccio sarà qualcosa di totalmente diverso da ciò che farei se fondassi la mia vita su Dio. Si tratta di una decisione che abbraccia la totalità della mia esistenza: come vedo il mondo, quel che voglio essere e quel che sarò. Non si tratta di una delle tante decisioni sul mercato delle possibilità che mi vengono offerte. Qui, al contrario, è in gioco tutto ciò che ha a che fare con la mia vita e con il suo destino».
Oltre la Scolastica?
Riecheggiano in queste riflessioni di Ratzinger pensieri di Pascal. E vi riecheggiano nella persuasione da Ratzinger maturata già molto tempo addietro stando alla quale «la teologia scolastica, così come si era fissata, non fosse più uno strumento adatto a far sì che la fede dialogasse con il proprio tempo». E non diversamente da Ratzinger la pensa sull'argomento Karl Rahner: «La filosofia e la teologia neoscolastica, pur avendo al proprio attivo tante benemerenze, oggi sembra in qualche modo giunta alla fine». E sempre Rahner precisa che il Concilio Vaticano II «ha posto fine al periodo neoscolastico della teologia».
Al termine della conferenza La fede e la teologia ai nostri giorni Ratzinger si ch iede: «Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo?». Questa la sua risposta: «(...) Perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo (...). Nell'uomo c'è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposta che si sono cercate è sufficiente; solamente il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere».
Metafisica e angoscia
Il senso - ripete Lacan con Freud - è sempre religioso. «Pensare al senso della vita - ha scritto Wittgenstein - significa pregare. Il senso della vita possiamo chiamarlo Dio». L'angoscia, quel vestito psicologico del fatto logico consistente nella mancanza di senso, è un tratto antropologico. E ancora Kierkegaard: «È una cosa eccellente, l'unica necessaria e chiarificante, questa che dice Lutero: "Tutta la dottrina (della Redenzione, e in fondo tutto il cristianesimo) deve essere messa in rapporto alla lotta della coscienza angosciata. Elimina la coscienza angosciata, e tu puoi anche chiudere le chiese e farne delle sale da ballo". La coscienza angosciata capisce il cristianesimo, come un animale affamato; se gli metti davanti un pezzo di pane o una pietra, capisce che l'uno è da mangiare e l'altra no; a questo modo la coscienza angosciata capisce il cristianesimo».