Prefazione a Saggezza greca e paradosso cristiano
di Charles Moeller, Natale 1946, Parigi
Io mi domando che cosa spinga gli uomini a pubblicare nuovi libri, a innalzare di un gradino la gigantesca tomba delle loro speranze deluse, a posare una nuova pietra per quelle cattedrali della stupidità che sono le nostre biblioteche. La nostra epoca, del resto, non ha bisogno di libri. Ne ha troppi. Non legge, o legge male, perché trova i libri lunghi e difficili. Le occorrono degli «slogan» grossolani, che la dispensino dal pensare. Perché non vuol pensare. E non vuol essere libera. Se vuole qualche cosa, forse inconsciamente, vuole la venuta di qualcuno che le prometta la salvezza, che strappi la sua vita alla distruzione. Forse un santo. Un santo che abbia successo. Vi sono, senza dubbio, i libri eterni, che bisogna salvare. Immortali, ma soltanto se rivivono nelle nostre anime. Ci si domanda appunto se essi rivivano nell'anima di questa generazione. Ci si domanda se i nostri giovani interroghino se stessi, con Socrate, sulla saggezza. Ci si domanda anche se essi conoscano Socrate. Se Socrate sia per loro qualche cosa di più che un nome, qualche cosa di più che un morto, morto per sempre, se non risveglia più il fervore dei nostri figli. Non sappiamo più chiaramente se l'angoscia di Amleto susciti in essi un'eco fraterna. Se essi piangano con chi piange, se gioiscano con chi gioisce. Una macchina fuoriserie Buick da 24 cavalli non è forse più «sacra» di tutto ciò? Le luci della città non sono forse più calde dei pallidi chiarori venuti da tanto lontano?
L'insegnamento dei «classici» ci induce ad accontentarci del modesto giardino, che Dio ci ha provvisoriamente affidato. Se l'uomo non può tutto, può almeno qualche cosa. Questo pochino gli si chiede di compierlo il meglio possibile. Il cristiano è, sì, un «servo inutile», ma è anche un «servo utile». Non può incrociare le braccia.
Spesso noi non chiediamo a un libro che un'ora, un minuto, un attimo di fervore spirituale. E questo è già molto bello. Se qualcuno dei miei lettori trovasse, qua o là, questo minuto di fervore, se qualche giovane studente vi ritrovasse almeno l'ombra della sua condizione di battezzato, se qualche incredulo, infine, si sentisse colpito, scosso, dinanzi alla bellezza del Cristo delle Beatitudini, la mia fatica sarebbe ripagata. Uno mi basterebbe.. Uno solo. Poiché un uomo solo è tutto un mondo: il mondo della grazia e della natura, che vuol vivere e risplendere in lui.
Ecco perché, nonostante la nostra stanchezza, quella dei miei allievi, quella dei miei contemporanei, la mia, io ho voltato le spalle al Faust di Valéry. Ho voluto dimenticare le sue parole deluse. E ho scritto questo libro.
Noi abbiamo «l'età della ragione». Il suo sapore è amaro. E ridiciamo le parole di Péguy sull'uomo di quarant'anni: « Egli sa; e sa di sapere. Sa che non si è felici. Sa che da quando esiste l'uomo, nessun uomo è stato mai felice. Lo sa, anche, così profondamente, con una scienza così intima al suo cuore, che questa è forse, o sicuramente è, la sola fede, la sola scienza che lo avvinca, nella quale si senta impegnato col suo onore».
Soltanto «non si lavora mai se non per i figli». Poiché «vedete l'inconseguenza. Un uomo ha un figlio di quattordici anni. Non ha che una preoccupazione: che suo figlio sia felice. E non dice a se stesso che sarebbe, se mai, la prima volta che ciò accadrebbe. Non dice nulla a se stesso (ed è questa la caratteristica del pensiero più profondo). Ciò che non è mai riuscito, ciò che non è accaduto mai, egli è convinto che accadrà questa volta, che accadrà naturalmente, per effetto di una specie di legge di natura».
Se non vi fossero quelli che vengono dopo di noi, i quali noi ci ostiniamo a credere che faranno meglio di noi, non faremmo nulla. Io non farei nulla. Noi, che siamo stati tanto sfortunati (e tanto fortunati, ma stupidamente, senza averlo meritato) durante due guerre e fra le angosce del dopoguerra, non vogliamo che i «nostri figli» siano infelici. O almeno che non lo siano come noi. E speriamo anche che essi faranno meglio di noi. Questo non dovrebbe esser difficile, poiché noi abbiamo fallito quasi tutti i nostri scopi.
La giovinezza farà meglio di noi. Noi abbiamo bisogno della giovinezza. La giovinezza? «La giovinezza ‑ scusatemi, diceva il Faust di Yaléry, ha in sé tutte le probabilità di sbagliare».
Ho dovuto vincere la mia ripugnanza a trascrivere queste parole tanto dure dell'ultimo Valéry, colui che non vuol dare a chi cresce se non questo avvertimento desolato: «Guardatevi dall'amore». Ma bisognava scriverle, perché la giovinezza ci delude. Ci inquieta. Come ignorare la sua apatia, la sua stanchezza, il suo senso di soffocare sotto il peso della cultura, la sua «cattiva coscienza» nel seno di una religione che le appare arcaica, il suo scetticismo di fronte alle realtà della patria, il suo languore, la sua amarezza?
Se io facessi con maggiori particolari questo ritratto, i «grandi» scuoterebbero gravemente la testa, si consulterebbero, si chiederebbero i mezzi per rimediare. Ma segretamente pensando che non c'è niente da fare. Vedo già i gesti stanchi dei nostri auguri, i gesti che accompagnano un nascosto autocompiacimento.
Poiché bisogna esser sinceri. Noi non abbiamo di che esser fieri. Non siamo stati capaci neppure di salvare la luce dei valori elementari della vita, di quei valori ai quali i giovani vogliono sempre donarsi, ma ai quali non osano più credere troppo, poiché si domandano se noi stessi vi crediamo senza riserve. La giovinezza trova che «non c'è piacere a giocare in un mondo dove tutti barano». La giovinezza ci chiede «una causa» che valga la pena. E che abbiamo, noi, da offrirle? Se non vedono più, essi, i giovani, quei valori risplendere in noi, imporsi attraverso la nostra «testimonianza», come vogliamo mai che li trovino in se stessi? Da soli, forse?
Poiché la disillusione della giovinezza è la nostra. E se sembra che noi soffriamo meno di questo disinganno, forse ciò accade perché siamo diventati duri ed egoisti. Perché il nostro denaro ci permette di dimenticare un poco. Gli onori ci illudono. E, soprattutto, noi prendiamo la vita meno seriamente, perché abbiamo conosciuto «l'invecchiamento e la decrepitezza, la morte e l'abitudine», che, con troppa facilità, battezziamo col nome di “saggezza”. Ebbene, non c'è che una saggezza. Quella che viene da Dio. Tutte le altre sono saggezze parziali. Non possono nutrire quei giovani affannati di vita che sono i nostri figli. Questi figli, che tutto sperano, ogni giorno, malgrado noi. Malgrado me.
Io vorrei che essi trovassero qui un riflesso della saggezza dell'«uomo nuovo nel Cristo». Vorrei che il «paradosso cristiano» commovesse la loro anima. Quella lezione non viene dalla «saggezza delusa» degli adulti, i quali talora sono male invecchiati: «Invecchiare? ‑ diceva Sainte‑Beuve. ‑ Ci si indurisce in certe parti, si imputridisce in altre, ma non si matura». Il paradosso cristiano è un umanesimo assolutamente nuovo. Non è più soltanto un coronamento degli sforzi umani, ma una rivelazione dall'alto. Io credo che l'unica saggezza che possa colpire la giovinezza moderna, sia essa cristiana o creda di non esserlo, è questo paradosso in cui sofferenza e gioia, debolezza e forza, morte e risurrezione si uniscono in misterioso connubio. Quel che è necessario per gli uomini moderni è il «Messaggio Pasquale».
Il secolo presente non si salverà se non volgendosi un'altra volta alla religione. E perché non vedono che l'unica religione che possa rispondere a quello ch'essi cercano è il cristianesimo? Perché l'aspirazione religiosa delle masse, tanto profonda, ma tanto vaga ancora, non riesce a cristallizzarsi intorno alle grandi religioni positive, intorno al cattolicesimo? Perché i nostri giovani cattolici, e i migliori, sono di un'ignoranza da selvaggi di fronte all'incredibile ricchezza di rivelazione dei dogmi cristiani? Perché sono così poco ferventi? Forse perché si sentono deboli e disillusi? Ma, appunto, quei dogmi recano loro la salvezza, la letizia pasquale, la forza. Forse perché hanno l'impressione che il mondo ripeta sempre daccapo gli stessi errori, che, come diceva Joyce, «the same renew», le stesse cose si rinnovino? E che l'universo giri in tondo, nell'assurdo? Ma quei dogmi appunto dicono loro che la terra deve trasfigurarsi, che morirà, ma per rinascere più bella! Perché hanno occhi e non vedono? Perché vogliono essere «Crociati senza croce»? Se questo libro, lanciato innanzi come «quattro pietruzze gettate in mare», sveglierà il senso battesimale di qualcuno di coloro che cercano, io non mi sentirò abbandonato del tutto.
Natale 1946 Charles Moeller