John Ronald Reuel Tolkien nasce il 3 gennaio 1892 a Bloemfontein, in Sudafrica. Nel 1895, i Tolkien tornano in Inghilterra. L’anno successivo muore il padre, Arthur Reuel. Nel 1900 la madre, Mabel Suffield, si converte dall’anglicanesimo alla Chiesa cattolica con i due figli. A causa di questo le famiglie Suffield e Tolkien, protestanti, interrompono ogni rapporto e ogni aiuto a lei e ai due orfani: nel 1904, ella muore a 34 anni perché, per ragioni economiche: non ha potuto curarsi adeguatamente. Lo scrittore ricorderà: ""Mia madre è stata veramente una martire; non a tutti Gesù concede di percorrere una strada così facile, per arrivare ai suoi grandi doni, come ha concesso a Hilary e a me, dandoci una madre che si uccise con la fatica e le preoccupazioni per assicurarsi che noi crescessimo nella fede". Affidati a parenti e a conoscenti, gli orfani sono seguiti da un sacerdote cattolico oratoriano (la Congregazione fondata da San Filippo Neri) che gravita nell'ambiente creato dal convertito cardinal John Henry Newman (1801-1890). Nel 1910 Tolkien entra all’università di Oxford, dove frequenta corsi di studi classici, nonché di Lingua e Letteratura Inglesi, ottenendo il baccellierato con lode nel 1915. Il 22 marzo 1916 sposa Edith Bratt (1889-1971) con cui si era fidanzato nel 1914, dopo la conversione della giovane dall’anglicanesimo al cattolicesimo; ne avrà quattro figli: John Francis Reuel, nel 1917 — sacerdote cattolico nell 1946 —; Michael Hilary Reuel (1920-1984); Christopher Reuel, nato nel 1924; e Priscilla Mary Reuel nel 1929. Nel 1916, scoppiata la Grande Guerra, il futuro filologo combatte sulla Somme — in Francia — come sottotenente, ma in novembre viene rimpatriato a causa della "febbre da trincea". Convalescente, nel 1917 inizia la composizione di The Book of Lost Tales, il grande affresco da cui derivano le sue opere narrative più note. Tornato a Oxford, nel 1918 entra nell’équipe del New English Dictionary. Nel 1919 è tutor universitario; nel 1920 lettore di Lingua Inglese all’università di Leeds dove, nel 1924, è titolare della stessa cattedra. Nel 1925 è nominato alla cattedra Rawlinson e Bosworth di Anglosassone all’università di Oxford, dove, dal 1945 al 1959, anno in cui lascia l’insegnamento, è titolare della cattedra Merton di Lingua e Letteratura Inglesi. Nel 1972 l’università di Oxford gli conferisce il dottorato ad honorem in Lettere e il 2 settembre 1973, a 81 anni, Tolkien si spegne a Bournemouth e la Messa funebre è celebrata dal figlio. Lewis e "gli scarabocchiatori" Nel 1926, Tolkien conosce l’anglista e scrittore Clive Staples Lewis (1898-1963), con cui stringe lunga e profonda amicizia. Con altri, il filologo è strumentale alla progressiva conversione dell’amico dall’ateismo al teismo, quindi all’anglicanesimo, deluso quando questi non completerà il cammino passando al cattolicesimo. Tolkien e Lewis sono noti anche come i principali animatori del club letterario oxfordiano degli Inklings, "gli scarabocchiatori". Le opere Autore di opere scientifiche e di edizioni critiche di testi antichi — come A Middle English Vocabulary, del 1922 e il contributo alla traduzione della Jerusalem Bible, del 1966, Tolkien è però noto soprattutto per la narrativa, la poesia e la saggistica a queste collegata. In quest’ambito altrettanto vasto, eccellono The Hobbit, del 1937; The Lords of the Rings, del 1968, già apparso in volumi separati fra il 1954 e il 1955; e The Silmarillion, del 1977. A questi si aggiungono Guide to the Names in "The Lord of the Rings". A Tolkien Compass, curato da Jared Lobdell nel 1975, nonché i testi incompiuti e le "prime versioni" che, dal 1983, il terzogenito cura e pubblica nella serie The History of Middle-Earth giunta al nono volume. Il vero Tolkien Le opere del Tolkien narratore vengono pubblicate e divengono famose — a volte originando un vero e proprio "culto della personalità", che il filologo non incoraggia e che anzi detesta, rifugge e teme — negli anni 1960 e 1970, contrassegnati dall’"alternativa", dalla psichedelia, dalla "fuga dalla realtà" e dalla contestazione. Accanto alla commercializzazione, talora brutale, della sua immagine, l’ideologizzazione di cui è fatto oggetto, anche in Italia, produce distorsioni assurde, che interpretano The Lord of the Rings ora come "bibbia" degli hippy; ora come testimonianza irrazionalista, puramente estetica, "reazionaria" e addirittura "cripto-fascista"; ora come insieme di tesi e di visioni neopagane, gnostiche ed esoteriche. Le opere tolkieniane sono, invece, incentrate su un grande affresco, di carattere anche teologico, fondato su amor, pietas e caritas, oltre che sul coraggio e sulla fortezza — compresi la dedizione, l’abnegazione e l’eroismo anche dei "piccoli". Formato ai valori più classici del patriottismo inglese, del conservatorismo e della fede cattolica, Tolkien è assai lontano dalle descrizioni — a volte vere caricature — proposte da certa critica forzata, che ha fondamento solo in interpretazioni superficiali dei suoi motivi d’ispirazione, dei suoi espedienti narrativi e della sua passione per il mito, insieme emblema, esempio, modello, tipo e ideale. "Devo dire che tutto questo è un mito — scrive Tolkien a proposito della propria narrativa —, e non una nuova specie di religione o di visione". Ossia, "per quanto riguarda il puro espediente narrativo, questo, naturalmente, mi è servito per cercare esseri provvisti della stessa bellezza, dello stesso potere e della stessa maestà degli dèi dell’alta mitologia, che possano però anche essere accettati, diciamo pure audacemente, da chi creda nella Santa Trinità". Le sue storie — non necessariamente fattuali, ma reali perché vere — sono prodotto di "sub-creazione"; ovvero, della capacità poietica — produttrice e poetica — dell’uomo che crea, partecipando della facoltà più importante del proprio Creatore a immagine e somiglianza del quale è stato fatto. Dunque, la creazione letteraria come produzione umana che è imitatio Dei e cantico del e all’Altissimo, nonché uso dei talenti in una vita vissuta — militia super terram, nel senso più vasto — per tessere le lodi del Signore, a Lui ritornare e a Lui offrire la consecratio mundi. Strumento è la parola umana il cui inscindibile e profondo legame con il Verbo di Dio fattosi carne non sfugge a Tolkien filologo e narratore. "Io pretenderei — scrive —, se non pensassi che fosse presuntuoso da parte di una persona così mal istruita, di avere come obiettivo quello di dimostrare la verità e di incoraggiare i buoni principi morali in questo nostro mondo, attraverso l’antico espediente di esemplificarli attraverso personificazioni diverse, che alla fine tendono a farli capire". Lo scrittore cattolico Il padre gesuita Guido Sommavilla e il frate minore conventuale Guglielmo Spirito hanno, in Italia, evidenziato e sottolineato la dimensione cattolica della narrativa tolkieniana. "Il Signore degli Anelli è — scrive lo stesso Tolkien al padre gesuita Robert Murray — fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la "religione", oppure culti e pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo. Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità io consciamente ho programmato molto poco: e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so". Sottolineando l’importanza dello "Scrittore della Storia (e non alludo a me stesso) "l’unica persona sempre presente che non è mai assente e mai viene nominata" (come ha detto un critico)", Tolkien osserva: "Nel Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia è compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini". Apertamente egli afferma: "[...] sono un cristiano (cosa che può anche essere dedotta dalle mie storie), anzi un cattolico. Quest’ultimo fatto forse non può essere dedotto dalle mie storie; benché un critico [...] abbia affermato che le invocazioni di Elbereth e la figura di Galadriel nelle descrizioni dirette [...] siano chiaramente collegate alla devozione cattolica a Maria. Un altro ha visto nel pane da viaggio (lembas) un viaticum e nel fatto che nutre la volontà [...] e che è più efficace quando si è digiuni un riferimento all’Eucarestia. (Cioè: la gente indugia in cose molto elevate anche quando si occupa di cose meno elevate come una storia fantastica)". Cattolica è anche l’estetica dello scrittore, che parla di "[...] Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità". Dunque, completamente errata e fuori luogo è l’impostazione che vede in Tolkien il modello di un preteso "neopaganesimo". "Al di là di questa [...] vita oscura [...], io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento — scrive il filologo in una lettera al terzogenito Christopher —. [...] Qui troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte". Intervista a Thomas Howard, docente emerito di Letteratura inglese al St. John's Seminary di Brighton in Massachusetts, uno dei massimi studiosi dell'autore inglese. Convertitosi dal protestantesimo evangelico, Howard è autore di un libro famoso: Evangelical is not enough. Fu amico di C.S, Lewis ed esperto dell'opera di Charles Williams, entrambi, insieme a Tolkien, membri del circolo degli Inklings. Lei ha sempre sostenuto non solo che Tolkien è uno scrittore cattolico, ma che la sua opera è un vero e proprio «percorso cattolico». Su cosa si basa questa tesi? Anzitutto bisogna sottolineare come la visione del bene e del male dello scrittore americana sia completamente aderente a quello che da duemila anni va affermando la Chiesa. Per il mondo cattolico bellezza e bontà conducono alla verità, perché da essa discendono; così all'origine di tutto vi è la perfezione, che il male cerca di contaminare e distruggere. Adamo ed Eva erano stati creati perfetti da Dio; infatti è il male che li distrugge e che li fa diventare meno completi, così che si ammalano e addirittura muoiono. Nell'opera di Tolkien questo è evidente in molti passaggi, soprattutto quando si legge che gli elfi, esseri perfetti, se si consegnano al male diventano orchi, cioè esseri stupidi, deformi, mostruosi, aggressivi e solo malvagi. L'originale bellezza di questa razza delicata e piena di luce è di fatto cancellata. Un altro esempio è il personaggio di Borumir: all'inizio egli appare come audace, coraggioso e vuole il trionfo della bontà, ma quando il potere maligno dell'anello ha il sopravvento su di lui, diviene un mostro, si trasforma completamente anche se per breve tempo; ma poi si pente e paga con la vita il suo riscatto. Anche il paesaggio (nella foto, una rappresentazione della «Fora spaccata») è distrutto dalla perversione del male nell'opera tolkeniana, così come spesso accade anche alla nostra realtà, quando gli uomini che abbandonano il rapporto vero con il Creatore e con il creato, depauperano l' ambiente per perseguire mero profitto. Vi è anche un'altra categoria nella quale emerge l'«humus» cattolico di Tolkien: le figure femminili. La bellezza che si sprigiona dalla regina degli elfi, ad esempio, è eco della bellezza della Vergine Maria; tutte le sue figure femminili si rifanno allo stereotipo mariano in tutti i suoi risvolti. Ma Tolkien era cattolico? Profondamente, e non solo nelle sue opere. Tutti i giorni andava a Messa, concepiva il matrimonio come un sacramento. Questo, in una Inghilterra dell'inizio secolo dove tutto era formalismo, soprattutto nella media e alta borghesia, di cui faceva parte lo scrittore, era sicuramente una posizione forte e controcorrente e desta una forte ammirazione. Inoltre testimoniava il suo essere cattolico anche in un ambiente ostile come quello dell'Università di Oxford, dove insegnava e dove era continuamente attaccato dal corpo docente, di spirito fortemente avverso alla sua esplicita fede. La bellezza della realtà e lo stupore dell'uomo di fronte ad essa che significato hanno nell'opera di Tolkien? Ciò che sta alle fondamenta dell'opera tolkeniana è la creazione di un mondo in cui c'è una bellezza tremenda, ma anche un orrore molto forte. Il fatto che Tolkien crei un mondo «secondario» diverso dal mondo primario, ci permette di guardare il mondo secondario con una prospettiva che ci fa capire meglio la nostra realtà. La psicologia dell'uomo fa si che esso, spesso se non sempre, perde la capacità di vedere ciò che esiste o accade sotto i suoi occhi tutti i giorni, comunemente. Le cose più comuni, come gli uccelli, gli alberi ma anche i visi delle persone che ci circondano e con cui abbiamo maggior contatto, è come se piano piano non le vedessimo più, non destassero più in noi alcun interesse, proprio perché sono quotidiane. Creando questo «altro» mondo Tolkien non fa altro che elevare il lettore sopra il mondo «primario» e gli permette di vedere ciò che altrimenti non sarebbe più possibile. Il paradosso è proprio questo. Quindi quella di Tolkien non è una fuga dal reale, come alcuni studiosi affermano, sbagliando clamorosamente, ma un percorso che aiuta a vedere in maniera più chiara ciò che accade nella realtà. Ad esempio Tolkien quando crea un personaggio, come l'elfo, non è interessato tanto alla figura in se stessa, quanto alla verità che questo soggetto trasmette all'interno del suo percorso letterario. La bellezza di questi personaggi è dovuta dal fatto che, all'interno dell'opera tolkeniana, sono esattamente «a casa loro», nel loro ambiente naturale. Infatti un elfo nella foresta è molto più a suo agio che noi nel mondo reale. Quelli di Tolkien sono personaggi inventati ma rispecchiano in maniera più evidente una sintonia con ciò che li circonda rispetto a quello che può essere per noi. Leggendo le sue opere perciò si innesca in noi la nostalgia di una compiutezza, della capacità di essere in completa sintonia con la realtà. Egli ci guida in un mondo che ci affascina e che vogliamo fare nostro, al di là del fatto che sia reale oppure no. Innanzitutto, ha senso parlare de Il Signore degli Anelli come di un "capolavoro cattolico", o, dopo i tentativi di appropriarsene fatti da destra e da sinistra, non si rischia, per così dire, di battezzare quella che è principalmente una (bellissima) favola? A un livello superficiale così come a un livello più profondo, siamo autorizzati a parlare de Il Signore degli Anelli come di un "capolavoro cattolico". Chi ce ne da il diritto è lo stesso Tolkien, che ha detto che non avrebbe mai potuto scrivere la saga se non fosse stato cattolico. Inoltre egli ha individuato, in molti elementi della narrazione, una specifica analogia con categorie cattoliche (in una conversazione con Clyde Kilby disse che riteneva Gandalf un angelo). A un livello più profondo, naturalmente, scopriamo che l'intera struttura della Terra di Mezzo è assolutamente comprensibile per qualsiasi serio cattolico. Per esempio, il bene e il male, così come vengono intesi dalla Chiesa, nella Terra di Mezzo non sono diversi da come noi ne facciamo esperienza. Il male è parassitico, e non ha altra funzione che quella di distruggere la buona solidità e bellezza che caratterizza la creazione. Gollum è un esempio significativo: in origine creatura molto simile agli Hobbit, il male lo ha poi ridotto a un sibilante, ringhioso, inaridito frammento di quello che è un Hobbit. Lo stesso vale per il paesaggio di Mordor: il male ha distrutto tutto ciò che era meraviglioso e fertile, e vi ha lasciato solo cumuli di cenere e fango. Anche la sofferenza subita "in vece di qualcun altro" è di fondamentale importanza nella saga, come lo è per il cattolicesimo: la Compagnia dell'Anello sopporta ciò che sopporta per amore della salvezza del mondo, per così dire. Questo preannuncia ciò che è centrale per la nostra storia, ossia le sofferenze di Nostro Signore, e quelle dei santi, a favore dell'umanità peccatrice. Un avvertimento: Tolkien ha sempre dimostrato un'antipatia verso l'allegoria (riteneva che Narnia di Lewis fosse troppo allegorica), cosicché di fatto c'è il rischio di "battezzare" tutto con eccessivo zelo. Frodo non è Cristo, e nemmeno lo è Aragorn (lo sconosciuto, ma legittimo re che sta per tornare). Galadriel, per quanto pura e amabile possa essere, non è un'allegoria della Madonna. Ma, alla fine, possiamo con l'approvazione di Tolkien parlare della saga come di un capolavoro cattolico. Un post scriptum potrebbe essere l'osservazione che nessun protestante avrebbe plausibilmente potuto scrivere questa saga, poiché essa è profondamente "sacramentale". Ossia: si raggiunge la salvezza solo attraverso mezzi concreti, fisici (l'Incarnazione, il Golgotha, la Resurrezione e l'Ascensione); e la storia di Tolkien è disseminata di "sacramentali" (il lembas, il viatico degli Elfi, dall'originario lennmbass, "pane da viaggio"; la fiala di luce di Galadriel; il mithril, in elfico è l'argento di Moria, il vero argento; Vathelas, la foglia di re, erba risanatrice così chiamata dagli Elfi). Più che la comunicazione di un messaggio nascosto, il pregio principale del libro sembra quello di essere una grande allegoria della vita. Come dice C.S. Lewis, «nessun altro mondo è così palesemente oggettivo» come quello creato da Tolkien: gli uomini sono uomini in modo più vero, gli amici più amici di quanto spesso sperimentiamo ogni giorno. Insomma: la realtà in trasparenza. Come è possibile che un mondo fantastico ci avvicini alla natura delle cose? Ripeto, la parola allegoria non piacerebbe a Tolkien. Gradirebbe molto di più il termine analogia. Personaggi, luoghi e oggetti della sua saga non sono simboli o allegorie o altro. Sono ciò che sono, in primo luogo. Ma si può anche dire che sono "casi esemplari" di questa o quell'altra cosa di cui noi facciamo esperienza nel nostro mondo "primario". Ancora: Gollum non è simbolo di un'anima che si muove velocemente verso la dannazione finale: è un esempio significativo, riconoscibile dal nostro mondo, di ciò che effettivamente il male fa a una creatura. L'unica differenza fra i due mondi è che nella Terra di Mezzo riusciamo a cogliere la differenza, mentre nel nostro mondo uno può «sorridere e sorridere, ed essere un malvagio» (Otello). Il modo in cui questo mondo "fantastico", paradossalmente, ci avvicina alla vera natura delle cose del nostro mondo (mentre a un osservatore superficiale tale fantasia potrebbe sembrare la più imperturbata evasione dalla realtà) è che questo genere di narrazione ci da distanza e prospettiva. Ci coglie di sorpresa quando la nostra guardia è abbassata. Una volta ho chiesto a Lewis perché la Passione di Aslan (episodio de Cronache di Narnia; ndf) mi commuovesse più del racconto della crocifissione, quando sapevo perfettamente che Aslan è "solo" una fantasia. Lewis mi ha risposto che quando io leggo il Vangelo, tutte le mie aspettative "religiose" sono in fremente attesa («Io DOVREI reagire in un certo modo, ossia essere grato e probabilmente addolorato»); invece dalla Passione di Aslan vengo colto alla sprovvista, e dunque può accadere che ne venga sopraffatto. Allo stesso modo ci accorgiamo, con nostra sorpresa, che le stesse rocce, l'acqua, le foreste e i villaggi della Terra di Mezzo stimolano la nostra capacità di "vedere" le rocce, l'acqua e così via del nostro mondo. Quanti di noi hanno detto, durante una passeggiata in montagna, «Beh, qui è così bello da sembrare quasi la Terra di Mezzo!». Lo stregone Gandalf è sicuramente una delle figure più affascinanti, oltre che sicuramente la più potente, tra quelle che militano per il bene nella Terra di Mezzo. In fondo è una divinità che ha assunto i limiti della forma umana, nella prima parte della trilogia muore (lottando con un essere demoniaco nelle viscere della terra) per poi risorgere purificato. Perché Gandalf sembra spendere le sue energie soprattutto affinché ciascuno si impegni liberamente nella lotta contro il male? Gandalf impiega le sue titaniche energie in modo così disinteressato perché, per così dire, "così stanno le cose". Ossia, uno dei misteri della natura delle cose (nel nostro mondo come nella Terra di Mezzo) è che il bene deve essere scelto, non imposto. Tale libertà sembra essere una qualità peculiare del Bene. La coercizione non conduce mai, né gli uomini né gli Elfi, al bene. Gandalf questo lo sa. Dunque egli arriva fino a un certo punto. Non può agitare il suo bastone per allontanare l'Anello, e nemmeno può far sì che Saruman ritorni buono. Egli è servitore del Bene, non lo possiede. Si può anche far notare, in riferimento alla domanda, che non possiamo dire che Gandalf "muoia". Senza dubbio egli "scivola negli abissi" nel suo combattimento con il Balrog (creatura mostruosa e malvagia, letteralmente "demone di potere"). E in seguito, nel suo resoconto dell'episodio, egli fa riferimento per sommi capi a quell'esperienza. Ma Tolkien evita di dirci che Gandalf muore. Frodo ha ricevuto l'Anello, spetta quindi a lui provvedere alla sua distruzione; Gandalf, che sarebbe certamente più qualificato, non cerca mai di sostituirsi a lui, ma lo esorta a portare a termine il suo compito, come anche gli altri membri della Compagnia dell'Anello. Nel tratto finale della salita alla Voragine del Fato, Frodo non è più in grado di proseguire e Sani, non potendo portare il "fardello" al posto suo neanche per pochi metri, si carica in spalla l'amico. Amicizia e compito: c'è un legame? E poi c'è la tenera amicizia che lega gli Hobbit. Che cosa è l'amicizia ne Il Signore degli Anelli! Certamente l'amicizia ne Il Signore degli Anelli è affine a ciò cui Lewis si riferisce in The Four Loves (I quattro amori; ndr), all'interno della categoria phileo. È una delle manifestazioni dell'amore. Non ci potrebbe essere alcuna amicizia fra gli Orchi, o fra i Cavalieri Neri. Sauron odia i suoi servi. Ma il Bene dipende, per così dire, da questo legame disinteressato tra Frodo e Sam, o tra tutti i membri della Compagnia dell'Anello, poiché è una caratteristica della vera felicità (e deriva dal Bene) il fatto che noi «sopportiamo gli uni i pesi degli altri e così adempiamo la legge» di Cristo nella nostra storia e il Bene nella Terra di Mezzo. Vi è una duplice appropriatezza nel fatto che sia Frodo a dover essere il portatore dell'Anello: 1) questo fatto ingannerà Sauron, divertito solo all'idea che dei mezzi uomini possano intraprendere un compito tanto spaventoso; 2) Dio ha scelto ciò che è debole in questo mondo per confondere i forti (e potremmo tradurre tutto ciò in termini "tolkiani" senza troppe difficoltà). Lo stesso potere di Gandalf sarebbe pericoloso se fosse lui il portatore dell'Anello, e lui questo lo sa, così come ne sono consapevoli Galadriel ed Elrond. Gli Hobbit non sono, per natura, molto interessati al potere; per cui c'è un aspetto della loro natura che "coopera con" la grazia, o con ciò che vogliamo chiamare "grazia" nella saga. Parliamo del film: uno dei tagli più rilevanti che Peter Jackson (il regista; ndr) ha operato nel film è quello che ha colpito il personaggio di Toni Bombadil, totalmente cancellato. Che cosa perde Il Signore degli Anelli senza questa sorta di uomo primigenio, senza peccato originale, e del suo sorprendente rapporto con la natura? Il film perde molto eliminando la figura di Tom Bombadil. Ma, d'altra parte, Tom sfuggirebbe a tutti gli espedienti cinematografici, qualora il regista più geniale cercasse di mostrarcelo. Il risultato cinematografico sarebbe una triste parodia della pura e semplice gioia, della libertà e dell'allegria di Tom. Ci sono delle qualità che si piegano solo ad alcune forme (puoi catturare certe emozioni solo quando il soprano raggiunge il la bemolle; si possono scorgere certi aspetti dell'ineffabile negli archi di Chartres e in nessun altro modo; certi aspetti del dolore si rivelano unicamente nella Pietà). Il cinema fallirebbe, forse qualsiasi modalità di rappresentazione visiva fallirebbe, nel rappresentare Tom Bombadil. Ciò che il film perde, senza dubbio, è proprio la splendida e gaia innocenza di Tom. Questo personaggio ha alcune qualità in comune con Adamo prima della caduta; per esempio, egli è il "Signore" della Vecchia Foresta, non ne è il proprietario. Tolkien riteneva che la sua storia avesse bisogno di una tale icona di pura e semplice e immacolata bontà, che fosse in forte contrasto con tutto il male presente in quella terra. Per quanto buoni siano Gandalf, Elrond, Galadriel e Balbalbero, per non parlare degli Hobbit, in Bombadil abbiamo una particolare epifania di pura bontà. Boromir, Denethor, Saruman, Gollum sono alcuni esempi di personaggi in misura diversa corrotti dall'Anello. Il suo potere sembra agire su una predisposizione presente in tutti, Frodo compreso, pervertendo un desiderio dalla radice positiva. Qual è la tentazione dell'Anello? L'Anello, nella Terra di Mezzo, dev'essere per certi aspetti analogo al "frutto" dell'Eden. La sua promessa è di renderti saggio e potente, di elevarti al di sopra della tua particolare condizione (nel Medioevo si direbbe la tua "classe") e fare di te un dio. Il bene che può esserci alla radice di questa vulnerabilità è la coscienza che qualsiasi creatura intelligente, che sia uno Hobbit, un uomo o un Elfo, ha della dignità della propria persona. Il problema è che questa coscienza si trasforma ben presto in "ambizione", secondo l'originario significato di "desiderare di scalare in modo illegittimo la scala gerarchica", manifestando quindi un malcontento per la posizione assegnatagli. «E meglio regnare negli inferi che servire in ciclo», dice il Satana di Milton; e lo stesso dicono Sauron, Saruman e anche Gollum, sebbene l'immaginazione di quest'ultimo sembri essere miserabilmente insufficiente a una cosa tanto elevata come il potere. Semplicemente egli desidera il suo tesoro. Se Adamo vuole essere un dio. tragicamente perde la maestà che è propria dell'"uomo"; e presumibilmente, se un arcangelo è divorato dall'ambizione di essere un dominatore o un principe, allora è nei guai. Un arcangelo o uno Hobbit o un Vaia (letteralmente "i potenti", detti anche i Signori dell'Occidente; ndr) porta a compimento il proprio glorioso destino semplicemente essendo quello che è, così come un cane conserva la singolare eccellenza propria dei cani e non delle aquile. Nel romanzo, l'elemento divino non partecipa mai all'azione e i riferimenti a esso sono oscuri per chi non ha letto Il Silmarillion; inoltre i personaggi non hanno atteggiamenti religiosi. Eppure i più saggi tra loro sono restii a condannare senza appello, perché tutti possono «avere una parte da recitare» prima della fine: il mondo sembra ordinato secondo un disegno. Cosa c'è oltre il mare, a occidente, e che importanza ha? L'apparente assenza di un essere supremo che disponga le cose per il Bene è un fatto naturalmente sconcertante per molti lettori della Trilogia. "Dio" non interviene mai. I personaggi sembrano lasciati a se stessi, e fanno quello che possono contro il Male. Questa è una trovata geniale da parte di Tolkien. Nelle fiabe di solito c'è qualche talismano che sistema tutto. Nella Terra di Mezzo non ce ne sono. Questo perché il racconto di Tolkien è situato a un livello infinitamente più elevato e serio dei vostri abracadabra. Quelle storie sono affascinanti: ma la storia di Tolkien è seria tanto quanto la nostra stessa storia. E uno degli aspetti sconcertanti della nostra storia è "il silenzio di Dio". La Compagnia dell'Anello (come i nostri santi) si arrabatta, fa del suo meglio con le sue proprie risorse, senza il lusso di qualche HocusPocus a portata di mano che possa disperdere i Cavalieri Neri o cacciare gli Orchi. E la nostra storia sembra essere spesso molto simile. Dov'è Dio? E i personaggi di Tolkien non sono "religiosi". Nessuno dice le sue preghiere (c'è un'occasione in cui Faramir e compagni fanno una pausa prima di mangiare; ma questo, penso, al massimo può essere paragonato al momento in cui noi ci prepariamo alla preghiera, a meno che il grido «O Elbereth! Gilthoniel!» non sia una preghiera). I lettori troveranno la seguente osservazione un po' stravagante, ma da convertito al cattolicesimo quale pure io sono, in tale inespressività dei personaggi, per ciò che riguarda la "fede", io vedo una caratteristica specificatamente cattolica. I cattolici di solito non chiacchierano della fede. I protestanti, specialmente gli evangelici, sono sconcertati da questo silenzio. Secondo loro i cattolici non sono credenti se non sono in grado di "balbettare" almeno qualche "prova" della loro fede. Ma Tolkien, cattolico fin dall'infanzia, non vorrebbe, anzi non potrebbe, far chiacchierare sempre i suoi personaggi di Dio, così come lui (Tolkien medesimo) non potrebbe mai partecipare a un incontro di testimonianze. I fugaci riferimenti all'Occidente, e l'immagine degli Elfi che «migrano, migrano, migrano» («passing, passing, passing») verso Occidente tingono di gloria l'intera narrazione. Non qui, non qui, sembra dire quella parola, è la tua dimora definitiva. Per quanto meravigliosi e attraenti possano essere luoghi come la Contea, Rivendell o Lothlorien, anch'essi non sono la patria definitiva della felicità. Tutto deve muoversi verso Occidente. Anche in questo caso vediamo come Tolkien abbia costruito la sua storia in modo tale che virtualmente essa non è così diversa dalla nostra, e acquista perciò una gravita altrimenti impossibile. Che ruolo ha avuto Tolkien nella letteratura europea del Novecento e in particolare in quella cattolica? Tolkien ha avuto un ruolo nel panorama letterario europeo, anzi mondiale, del ventesimo secolo che ha fatto infuriare i critici. Ha semplicemente ignorato l'intera tradizione narrativa che ha regnato sovrana dal diciottesimo seco lo, e cioè la tradizione del romanzo "realistico" e "psicologico". Egli è ritornato al più antico e nobile genere narrativo, ossia l'Epica. L'uomo cartesiano non ha le categorie necessarie per trattare con questo genere di cose, se non classificandole con superiorità "primitive" e "frivole". Per un cattolico, l'opera di Tolkien giunge come un fiume di limpida fresca acqua in una fetida e malsana palude, portando con sé tutte le glorie scomparse con l'avvento della modernità, come la maestosità, la solennità, l'ineffabilità, il timore reverenziale, la purezza, la santità, l'eroismo e la stessa gloria. Descartes e Hume avrebbero delle difficoltà a spiegare cos'è la gloria usando il loro vocabolario e i loro successori, tristi, non hanno la minima idea di ciò che è andato perduto. Tolkien forse ha reintrodotto i poveri figli della modernità alla Gloria. Tolkien il mito e la graziaSe ne son lette e sentite di tutti i colori su Tolkien e il suo Il Signore degli Anelli. È stato tutto un tirarlo per la giacca, di qua e di là, da destra e da sinistra, dall'alto e pure dal basso. Tutto e il suo contrario è stato detto, secondo un costume ormai ricorrente. È la società dello spettacolo, d'altra parte. Peccato che quasi nessuno si sia ricordato dell'essenziale: ovvero che Tolkien era innanzitutto un cattolico a diciotto carati (ancorché anticonformista e "fuori dal coro", come sottolinea il cardinale Biffi). Da quella certezza prende invece le mosse Paolo Gulisano, di professione medico e raffinato studioso di letterature anglosassoni, nel suo Tolkien il mito e la grazia. Già. perché il romanzo epico per eccellenza del Novecento chiede di essere letto proprio alla luce di due termini apparentemente contrapposti: mito e grazia, per l'appunto. Il mito delle antiche leggende, delle storie profonde dei popoli e dei personaggi incantati che le popolano (e che, per dire, un popolo cattolicissimo come quello irlandese non ha mai dimenticati). Quel mito «necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità», il mito che è «simbolo, ossia segno che rimanda a un significato ultimo che l'uomo deve riconoscere e interpretare». Ma, ammonisce Gulisano, non si capisce Tolkien se non si prova a superarlo, questo mito affascinante e meraviglioso. Perché sopra a tutto c'è una Grazia che redime la storia degli uomini, la Bellezza e la Verità che - come scrisse il professore di Oxford - entrano nel mondo per santificarlo, completando e dando speranza all'eroismo pagano. Insomma, proprio la Grazia rappresenta la vera novità introdotta da Tolkien in un genere letterario che altrimenti rischierebbe di apparire come puro "fantasy", letteratura di evasione. Ci spiega Gulisano che ciò che viene creato è "un mondo perfettamente coerente, un tutto organico dove ogni entità ha una sua funzione, un suo significato; un uni-verso, univocamente orientato verso un centro che da senso alla Creazione". È in questo mondo secondario che prende forma una vera e propria "cerca", sul modello di quella arturiana. Con una differenza significativa: qui non c'è un Santo Graal da recuperare, ma al contrario un Anello da distruggere. Insomma, la prova da superare è la più difficile e piena di insidie che l'uomo possa affrontare: la tentazione del potere, la possibilità per l'uomo di essere come Dio, il peccato originale. Anche gli attori di questo mondo, i cercatori alla rovescia e i loro nemici, possono essere riletti come figure perfettamente aderenti a canoni della cristianità. O addirittura come personaggi fedeli a quelli biblici. Gandalf il Grigio è il segno evidente della Grazia, l'angelo annunciatore e custode, che dopo aver rifiutato la tentazione dell'Anello si fa guida per la Compagnia, vince la morte e ritorna purificato. Galadriel, bellissima e lucente regina degli Elfi, è ispirata - lo stesso Tolkien lo dice - a Maria Vergine, la consolatrice e la misericordiosa. Aragorn è invece il simbolo della regalità medievale, il sovrano taumaturgo che torna dal suo popolo per riunirlo. Frodo è il modello esemplare di una vita cristiana, che accetta la chiamata e si presta al sacrificio. Infine Sauron, principe delle tenebre, è ovviamente Satana, dunque non una divinità maligna ma angelo decaduto. Per tutto questo (e molto di più) Il Signore degli Anelli è un'opera "fondamentalmente religiosa e cattolica": parola di J.R.R. Tolkien. tratto da Tracce febbraio 2002.
Per approfondire: P. Gulisano, Tolkien. Il mito e la grazia, Ancora, Milano 2001. H. Carpenter, La vita di J.R.R. Tolkien, trad. it con introduzione e note di Gianfranco de Turris, Ares, Milano 1991; Idem, Gli Inklings. Clive S. Lewis, John R.R. Tolkien, Charles Williams & Co., trad. it. Jaca Book, Milano 1985; Emilia Lodigiani, Invito alla lettura di Tolkien, Mursia, Milano 1982; Guido Sommavilla S.J., Peripezie dell’epica contemporanea. Dialettica e mistero, Jaca Book, Milano 1983, pp. 417-440; e Guglielmo Spirito O.F.M., Sotto il tuo patrocinio: Tolkien e Nostra Signora, in San Francesco, n. 5, maggio 1995, pp. 50-51. |