La "voce" di Dante
di Giulio Galetto (Arena di Verona)
Promuovere Dante, leggere e far amare la «Commedia», stimolare la consapevolezza della geniale, insuperata ricchezza e bellezza della lingua «inappellabile e battesimale» del più grande libro della nostra letteratura: chi è, da un quindicennio a questa parte, il più popolare e riconosciuto detentore del primato in queste meritorie e necessarissime operazioni? Naturalmente Vittorio Sermonti (sua la definizione «inappellabile e battesimale»), perché è lui che ha proposto la «Commedia» in una sua originale lettura-spiegazione alla radio, quindi ne ha ricavato tre fortunatissimi volumi pubblicati da Rizzoli (ultima edizione riveduta l'anno scorso) ed ha proposto la sua lettura-racconto dell'intero poema in San Francesco a Ravenna seguito da un pubblico che, quanto ai numeri, è risultato più vicino al tutto esaurito dei grandi spettacoli all'aperto che non ai pochi eletti dei concerti nelle basiliche antiche. Ho incontrato Sermonti a Verona e mi ha regalato il piacere di una conversazione affabile e vivacissima.
- Lei è saggista, narratore, traduttore di classici del teatro, regista radiofonico e televisivo; ma, soprattutto nell'ultima fase, il suo lavoro culturale si è concentrato sulla «Commedia». Ha scritto di aver incontrato Dante, quasi abusivamente e molto confusamente, a undici anni quando suo padre lo leggeva ai suoi fratelli più grandi. Era segnato lì il suo destino di futuro «sponsor» del poema? Nasceva lì l'amore che l'avrebbe fatto entrare capillarmente - conducendo con sé tanti uditori o lettori - nel mondo e nel linguaggio di Dante?
«E' passato tanto tempo da quei miei undici anni. Ci fu poi il mio Dante da studente e soprattutto il mio Dante da insegnante di Liceo: lì vidi l'interesse che i ragazzi avevano - o potevano avere, se la proposta era fatta in un certo modo - per la «Commedia». In mezzo molte altre cose d'altro tipo. Fu alla metà degli anni Ottanta l'occasione decisiva del mio «dantismo»: durante una vacanza a Paiano Ludovica Ripa di Meana (che poi sarebbe diventata la mia seconda moglie) mi chiese: «Perché non mi leggi Dante?». Così, per le mie lezioni a Ludovica, preparavo, per ogni canto, una presentazione-racconto nella quale cercavo di sciogliere i più intricati nodi lessicali della lingua di Dante e di segnalare i punti nevralgici del testo: poi il piacere della lettura poteva seguire senza grosse difficoltà e senza nessun arbitrario adattamento. Quello era già l'impianto che avrei adottato per le letture da fare su Radio Tre. Ma lì, dove Fabio Borrelli accolse senza esitazioni la mia proposta, volli passare attraverso la consulenza del grande Contini».
- Ecco: la «supervisione» di Gianfranco Contini per «Inferno» e «Purgatorio» e la «revisione» di Cesare Segre per i canti finali del «Purgatorio» e per il «Paradiso» che peso hanno?
«Quando mi rivolsi a Contini, lui mi disse: "Foni". Voleva sentire la mia voce di lettore. Giudicò: il solfeggio è corretto. E accettò la supervisione: che fu assolutamente parca di correzioni e preziosissima di indicazioni e ricchissima per me di soddisfazioni. Contini mi convinse dell'importanza della "voce": la lingua di Dante deve calarsi nella "voce", leggere Dante vuol dire "eseguire" la poesia di Dante come si esegue uno spartito musicale. Quando Contini, malato, sentì vicina la fine, mi disse: "Ti affido a Cesarino"; e Cesare Segre accettò di darmi la sua, ancora preziosissima, consulenza linguistica, nella linea che già era stata di Contini. Ecco: l'importanza di queste supervisioni fu anche nel guidarmi alla scelta della lingua con la quale io facevo precedere, alla lettura diretta del testo, la mia sintesi-spiegazione: bisognava che anche lì la lingua d'oggi dicesse con precisione ciò che ha detto, sette secoli prima, la lingua di Dante».
- Contini dice che, se da un lato la figura di Dante appare lontana da noi come un mito, da un altro lato il vigore della sua poesia è tale da farci sentire una sua irresistibile "prossimità". Si potrebbe dire che, paradossalmente, l'attualità di Dante sta nella sua inattualità, ossia nell'imporci la memoria e la necessità di ciò che abbiamo smarrito? Insomma l'attualità di Dante non sarà nell'opposizione del modello della sua lingua, che fu splendidamente inventiva, al depauperamento espressivo che oggi, per vari e concorrenti motivi, cresce a ritmi preoccupantissimi?
«Sì, credo di sì. L'energia della poesia della "Commedia" costringe il lettore a farsi suo contemporaneo: purché questo lettore ascolti la "voce" di Dante. A scuola dicevo ai ragazzi: affidatevi alla voce; se vi lasciate andare alla poesia che è dentro di voi, la voce di Dante diventa la vostra voce. Anche i miei racconti-spiegazioni premessi ai canti della Commedia non vogliono essere una traduzione-semplificazione, ma appunti in margine al mio ascolto della voce di Dante e alla possibilità di farla risuonare nel nostro orizzonte linguistico. Insomma non una traduzione da lingua a lingua, ma da voce a voce. La lunga esperienza che ho accumulato del teatro e della radio mi ha insegnato molto su questa esigenza che Dante viva proprio nella sua voce: capace di far vivere, con una gamma di registri prodigiosamente ampia, tutto ciò che ci circonda e tutto ciò che pensiamo».
- Come bisogna leggere i canti delle grandi passioni (di Francesca, di Ulisse, di Ugolino)? Con l'abbandono romantico suggerito da De Sanctis o col distacco insegnato dalla critica più vicina a noi?
«Se togliamo le didascalie ("disse", "dissi"), quelli di Francesca, di Ulisse, di Ugolino sono monologhi, sono racconti memoranti di un io; nel ricordare-raccontare, il personaggio continua a contagiare. E il bellissimo contagio sarà tanto più intenso quanto più la voce avrà evitato certe enfasi. Io lo dicevo anche a Gassman: sta attento a non sbagliare tutto quando, chiudendo il racconto di Ulisse, sfreni la voce in crescendo, finiscilo invece in minore. Insomma , insisto, Dante è attuale, è nostro in tanto in quanto troviamo la misura giusta della sua voce. Guardi: io conosco la tosse: nelle mie tante letture pubbliche della Commedia, non ho sentito le tossi della noia, ma tossi frenate al limite del possibile, tossi arrabbiate di tossire perché non volevano disturbare la voce di Dante che entrava, assolutamente nostra, nel nostro tempo».