CONFERENZA DI GIUSEPPE PONTIGGIA

 

Introduzione di don Mirko Bellora
Tutto è nato da un libro: il romanzo "Nati due volte". Questo libro mi ha folgorato e ha fatto nascere in me un desiderio forte e intenso di incontrare il prof. Giuseppe Pontiggia, sognato e cercato come una miniera di sapienza, e di farlo conoscere alla mia parrocchia.
Ho trovato poi un articolo del professore sul Sole 24 ore del 4.2.2001 dove stava scritto:
Hanno chiesto a due nani gemelli, divenuti manager tra i più importanti degli Stati Uniti, qual è il segreto della loro ascesa. "Pensare in grande", hanno risposto. Che per due nani deve comportare qualche invenzione ulteriore. La tendenza comune è infatti di pensare in piccolo, atteggiamento che viene considerato prudenziale.
Nani che pensano in grande!

Pontiggia – mi sono detto – è l'uomo giusto al momento giusto. Così l'ho chiamato.
Ma perché questo titolo: "Fede: fuga o conquista?". Perché c'è nel romanzo "Nati due volte" un capitolo splendido dal titolo "Preghiere" che mi ha colpito e scolpito - l'ho riletto, penso, una decina di volte. Lì c'è questa frase formidabile: "La fede non è una fuga ma una conquista".
Una frase, una pagina potente che ha fatto riaffiorare alla mia memoria un'altra pagina altrettanto potente e scomoda - letta, riletta e mai dimenticata - di Oriana Fallaci nel suo libro "Lettera a un bambino mai nato", dove sta scritto:

Tuo padre mi ha scritto di nuovo.
L'invidia verso coloro che credono in Dio mi ha talmente assalito in questi ultimi mesi da diventar tentazione, ed ho ceduto alla tentazione. Lo riconosco ammettendo la mia stanchezza. Dio è un punto esclamativo con cui si incollano tutti i cocci rotti: se uno ci crede vuol dire che è stanco, che non ce la fa più a cavarsela da sé. Tu non sei stanca perché sei l'apoteosi del dubbio. Dio è per te un punto interrogativo, anzi il primo punto interrogativo di infiniti punti interrogativi:

Fede: punto interrogativo o punto esclamativo? Fede: fuga o conquista? Il professor Pontiggia ha scritto: "La fede non è una fuga ma una conquista".
Attendo su questa frase, su questo capitolo, su questo romanzo, sulla vita, attendo "avec gourmandise", con ingordigia le sue splendide riflessioni.

La verità in gioco
Sono grato a don Mirko e anche un po' imbarazzato: mi ha sognato e cercato come una miniera di sapienza … Se potessi attingere alla miniera della sapienza vorrei rendere più equilibrato il mio comportamento che nella vita, come traspare anche nel romanzo, è forse solo lucido intellettualmente. Mi rendo conto dei miei comportamenti squilibrati, persino patologici, nello stesso momento in cui li vivo. Ho anche costituito per qualche psichiatra un caso un po' singolare perché mi rendo conto, mentre lo faccio, di fare qualche cosa di strano. Mi rendo conto degli aspetti comici, anche in momenti drammatici e mi accorgo di viverli quasi simultaneamente, contemporaneamente. L'equilibrio è una finalità che perseguo anche scrivendo, passando nel corso della stessa pagina dal registro drammatico al registro satirico-ironico e addirittura a quello comico. L'ho fatto perché ho cercato di fare soprattutto un romanzo possibilmente bello, possibilmente forte, possibilmente vero. Pensavo che una delle modalità che mi potevano consentire di realizzare questo obiettivo poteva essere proprio quella di una visione caleidoscopica, non una sola dimensione drammatica, angosciata, oppure ironica, satirica, ottimistica, ma l'insieme, la mescolanza, la contemporaneità, la simultaneità.
Volevo fare un romanzo, un romanzo forte su un tema importante. Scrivendo mi sono reso conto che, se fossi arrivato radicalmente alla verità, avrei fatto una cosa utile per il lettore. Ho anche notato che quando ci si impegna sulla verità, si supera il gioco delle parti. Man mano che facevo il libro, lo leggevo a mia moglie e a mio figlio: ci sono dei passaggi duri, complicati, tormentati. Non volevo assolutamente fare una autobiografia, però l'intreccio con la vita è molto forte, così ho potuto notare che quando è in gioco la verità, quando lo scrittore si impegna ad andare in fondo alla verità, la verità umana, questo fa superare anche alle persone che sono coinvolte il gioco delle parti, la preoccupazione in sé.
Sfoglierò con voi il mio romanzo "Nati due volte" e ne commenterò alcune pagine.
 

Cambiare gli occhi
Quando mi sono liberato dall'idea di fare un racconto autobiografico ho capito che potevo raccontare una storia. Non come storia di una sofferenza, ma come una storia di maturazione, allora ho immaginato il primo capitolo del libro che avviene nel luogo più avverso della disabilità: le scale mobili. E' stata la chiave liberatoria che mi ha aperto l'accesso al romanzo. L'importante è cambiare gli occhi con cui si guarda un'esperienza. Inizialmente avevo vissuto l'esperienza dell'handicap in maniera negativa, come qualcosa di inaccettabile. Poi ho cambiato sguardo – il cambiamento di sguardo è davvero importante in un'esperienza – e le cose mi sono apparse in una luce diversa.
 

Scale mobili
La scala mobile sale al terzo piano tra scale che discendono, gradini che spariscono in alto tra le luci, pavimenti che si allontanano ai due lati, la folla che circola lentamente nel brusio.
«Ti piace?» gli chiedo in un orecchio, alle spalle.
«Sì» risponde senza voltarsi.
Aggrappato con la sinistra al corrimano di gomma, si lascia cadere indietro, sentendo che ho le braccia aperte.
Sto curvo in avanti per sorreggerlo. Quando arriviamo in cima e i gradini di ferro scompaiono nella feritoia, si arrovescia con le spalle.
«Non aver paura!» gli dico, sollevandolo a fatica perché non inciampi.
Si posa, con le gambe rigide, i piedi tesi, sulla moquette oltre la piastra metallica. Riesce a non cadere. Cammina. Mi guardo intorno, asciugandomi la fronte con il palmo della destra. Una signora ci guarda accigliata vicino a un ombrellone giallo, piantato in un rettangolo di sabbia che simula una spiaggia. Anch'io la guardo, sono stanco delle persone che ci guardano. Ma ecco che lancia un grido, portandosi la mano alla bocca, mentre si sente un tonfo pesante. Paolo è caduto su un fianco e ora, troppo tardi, si volta sul dorso, come gli è stato insegnato. Ha il viso contratto dal dolore, le palme inutilmente aperte sul pavimento.
«Ti sei fatto male?» gli sussurro, piegandomi su di lui.
Mi fa segno di no.
Lo aiuto a rialzarsi, puntandogli i piedi contro i miei e tirandolo per le braccia.
Una piccola folla, occhi di curiosità sgomenta, ha fatto il vuoto intorno a noi e si ritrae per lasciarci passare.

«Non è niente» dico.
Lo sorreggo per alcuni passi.
«Va meglio?»
«Sì»
Gli indico, tra le piccole palme dentro vasi di argilla, un bar riparato da un tetto spiovente di canne, contro un mare blu di cartone.
«Vuoi che beviamo qualcosa?»
«Sì»
Ci sediamo a un tavolo di legno greggio, su panche rustiche. Vicino a noi un padiglione a forma di enorme squalo spalanca le fauci per racchiudere articoli di pesca. Guardo i suoi denti aguzzi che ci sovrastano in alto.
Sono stremato e infelice.
Gli chiedo:
« Vuoi una coca-cola?»
«Sì»
Gli reggo il bicchiere mentre beve.
Quando ci rialziamo, gli dico:
«Cammina bene. Sta' attento.»
Lui procede ondeggiando come un marinaio ubriaco. No, come uno spastico.
Si volta per dirmi con la sua voce stentata:
«Se ti vergogni, puoi camminare a distanza. Non preoccuparti per me.»
 

Dalla normalità all'unicità

La fotografia
"Fermo così!" gli intimo, mentre si volta, le braccia tese, aggrappato all'asta dell'ombrellone, i piedi immersi nella sabbia, il corpo diagonale che forma una ipotenusa. Ma già la bocca si contrae, il sorriso è diventato una smorfia. Cade all'indietro a palme aperte, mentre premo il pulsante fuori tempo.
c"Ricominciamo" gli dico.
Lo rovescio bocconi nella sabbia e gliela cospargo sulla schiena fino a sommergerlo, come la nostra vicina di sdraio, una ottantenne raggrinzita dall'età e dai raggi ultravioletti. E' convinta che il sole sia la fonte della salute e che quanto più le penetrerà nella carne avvizzita, tanto più sarà prossima all'immortalità. Morirà l'anno dopo, come una scolopendra fulminata in una fornace.
"Reggi la faccia con le mani" gli dico.
Lo fa, ma i gomiti scivolano nella sabbia e il mento vi affonda.
Lo aiuto a rimettersi in posa. Quando però accosto l'occhio all'obiettivo, lui è di nuovo disteso.
"Non riuscirai mai a riprenderlo in questa posizione" mi dice Franca sollevandolo per le ascelle e scotendogli via la sabbia. "Sarebbe difficile anche per noi."
Ecco una frase che ricorre di continuo in chi assiste i disabili. Noi come termine perenne di confronto, simbolo di una normalità suprema, traguardo irraggiungibile quanto comune.
Insiste:
"Perché vuoi fotografarlo in questa posizione?"
Non lo so neanch'io, avevo in mente un putto appoggiato con i gomiti alla cornice di un quadro rinascimentale. Come mai cerco modelli così remoti e assurdi?
Lo faccio accovacciare nella sabbia e gli scavo intorno una buca. Lui cade in avanti sporcandosi la faccia. Non piange perché capisce che sono io il responsabile dei suoi guai e mi rivolge uno sguardo tra il rimprovero e la protezione. A volte con me è paterno, è uno dei tratti che mi commuovono.
Lo ripulisco in fretta, lo rimetto seduto con le gambe accosciate, come un piccolo Buddha.
"Ecco, fermo così, non muoverti!"
Ripeto la frase tipica di mio padre, tra i pochi che in villeggiatura, prima della guerra, possedeva la leggendaria Zeiss tedesca, quando mi fotografava sui prati di Caglio.
Il piccolo Buddha vacilla prima di precipitare in avanti. Premo il pulsante mentre alza il viso intimorito verso di me. Nella fotografia ha acquistato un'aria seria, preoccupata, normale.
"Scegliamo questa!" punta il dito Franca, inserendola nel quadro di vetro che è a metà del corridoio.

 

A mio figlio, dopo questo capitolo sulla fotografia, ho chiesto: "Ti dispiace che io adoperi continuamente la parola "normale" per dire che Paolo – il protagonista del libro – non lo è? La preoccupazione del padre nel libro è la ricerca maniacale, anche futile, anche stupida della normalità … ma non è così importante la normalità, non è un miraggio importante, se pensiamo agli stupidi che ci assediano.
Essere normali non è così importante. Ai giovani vengono proposti ideali di normalità, che sono tutto fuorché normali. Persone che pensano esclusivamente alla palestra… Donne fenicottero che sfilano in passerella: ma quali donne si riconoscono, quali uomini desiderano quelle donne? La normalità è molto funzionale ai consumi, alla moda, ma non è affatto ciò che risponde alle nostre vere esigenze. Noi sentiamo l'esigenza di realizzare noi stessi, di essere noi stessi e ci accorgiamo di non coincidere affatto con la normalità che ci è proposta.
Possiamo capire che un giovane voglia essere normale: il giovane ha paura di essere diverso e se è diverso ne soffre in una maniera smisurata. Io ho fatto in tempo a vivere gli ultimi anni di fascismo e mi ricordo che mia madre per le sfilate mi aveva confezionato un fez che, anziché avere un fiocco, aveva una sorta di bandoliera. Nessuno l'aveva e io stavo male. Tutti mi guardavano. Mia madre mi diceva che era più bello degli altri, ma a me non interessava, non volevo essere più bello degli altri, volevo essere come gli altri. Il giovane vuole essere riconosciuto dal gruppo a cui appartiene, non vuol essere normale rispetto a quello che vogliono i genitori o i professori, ma vuole essere normale per il gruppo che lo accoglie. A volte è una normalità pericolosa, sinistra, però è quella la normalità che vuole.
Ma l'uomo andando avanti si accorge che non è affatto uguale, scopre di essere diverso. Si accorge che i suoi gusti non coincidono affatto con quelli degli altri. Il percorso che l'uomo fa invecchiando è quello di scoprire la propria radicale unicità.
Hillman (grande psicologo allievo di Jung) ha scritto un libro molto bello in cui analizza la vecchiaia come scoperta del proprio carattere, come consolidamento del proprio carattere e della propria radicale diversità. Il vecchio scopre che la sua vita ha un senso solo se la riconosce, se la difende, se difende la propria unicità e diversità. È maturo quando prende atto di questo. Hillman mostra che la maturità della vecchiaia è proprio in questa consapevolezza. Purtroppo la si conquista tardi, ma dobbiamo aver sempre presente la futilità del traguardo che la società ci propone continuamente: la normalità.
Potremmo, al contrario, difendere lo statuto della nostra diversità: ognuno di noi è diverso, abbiamo uguali diritti, ma siamo molto diversi. Il problema è quello di incontrare la diversità.

Così mentre leggevo a mio figlio il capitolo e dicevo: "Ti dispiace che io dica che Paolo non ha una faccia normale?", lui mi ha risposto: "Sono io il primo a saperlo, di che cosa ti preoccupi?".
Aveva capito molto bene anche qual era il gioco della finzione e della verità, aveva capito molto bene di essere l'ispiratore di molte battute. Però ha anche capito che questo non è un gioco vincolante, che la cosa più importante è la verità del personaggio. Lo stesso è valso anche per mia moglie, che ha una parte non facile, complicata e anche dura. A parte qualche inevitabile difficoltà, a me interessava andare oltre le verità normali di cui ci accontentiamo.
Per fare un esempio ad un certo punto il narratore, il padre, scopre che Paolo ama trascorrere le vacanze con i disabili e con i volontari, preferisce stare con loro, mentre non vuole stare con i genitori. Allora il padre, che durante tutto il libro è in un certo senso sorpreso dalle reazioni del figlio, pensa che avrà le sue ragioni, poi comincia a pensare quali possano essere queste ragioni. Scopre, ad esempio, che quando si dice a un disabile di quindici anni: "cammina diritto", si fa una esortazione, una preghiera, si dà un consiglio di cui si sa in partenza la totale inutilità, oppure è un alibi per continuare a sperare, oppure una forma di ritorsione, di vendetta, di punizione, oppure tutte queste cose assieme. "Cammina diritto" - che noi abbiamo detto e che tuttora diciamo a nostro figlio - non era semplicemente un invito dei genitori a migliorare la deambulazione, era qualcosa di più complesso. Quello che ho voluto rappresentare è che la letteratura può andare di là, oltre le verità di cui ci accontentiamo.


 

L'occhio solidale

La sfera di cristallo
È l'immagine prediletta da quei medici che dicono di non averla, quando non vogliono pronunciarsi sul futuro. "Avessi la sfera di cristallo!" sospirano, corrugando la fronte con una perplessità che immaginano sapiente. Oppure: "Mica abbiamo la sfera di cristallo!", con una intonazione più rozza e corporativa.
Li ho odiati per anni. Si rifugiano dietro una metafora proverbiale, stremata dall'uso, svuotata di ogni attendibilità anche fiabesca, come dovessero difendersi da pretese insensate, mentre sono solo richieste di aiuto, appelli alla speranza, fughe nel futuro per liberarsi dalla disperazione del presente. E ricorrono a una frase imparata magari da un primario (le fatuità dei migliori sono le testimonianze che ricordano più tenacemente), per annettersene, in incognito, l'autorità. L'alibi della deontologia professionale dovrebbe mascherare questa interruzione del dialogo. Ma i pazienti e i loro parenti non vi hanno mai creduto. Nella sfera di cristallo intravedono non l'aleatorietà di divinare il futuro, ma la viltà di sottrarsi a una analisi penosa e dura, a un confronto impegnativo e doloroso. Quei medici, più competenti e umani di loro, che sanno affrontarlo, non se ne sono mai pentiti.
Ricordo il professore che, tre mesi dopo il parto, dietro la scrivania del suo studio, ci aveva rivelato la verità, ovvero quello che pensava. Aveva riflettuto a lungo prima di rispondere, in una penombra carica di angoscia. Non era ricorso alla sfera di cristallo. Più esperto di medicina e di uomini di tanti suoi colleghi, ci aveva detto, con voce pacata e ferma, guardandoci negli occhi:
"Non posso prevedere come diventerà vostro figlio. Posso fare alcune ipotesi ragionevoli.
"La più ottimistica. La sofferenza cerebrale, dovuta al forcipe e alla scarsità di ossigeno al momento della nascita, si riassorbe. Non ha lasciato tracce consistenti. I disturbi possono essere marginali. Non è l'ipotesi più probabile.
"Vediamo l'ipotesi mediana. Le lesioni cerebrali, anche se non profonde, hanno intaccato i centri motori e quelli del linguaggio. Il bambino tarda a parlare, se a tre anni un suo coetaneo usa mille parole, lui ne sa dire cento. L'andatura sarà imperfetta, la manualità difettosa. Però è intelligente, presenterà solo forme di immaturità dovute alla parzialità della sua esperienza.
"Passiamo all'ipotesi più negativa. L'elettroencefalogramma è troppo precoce per essere attendibile e non ha rivelato la gravità delle lesioni. Le alterazioni della motilità e dell'intelligenza sono più forti del temuto. Non è l'ipotesi più probabile, secondo me.
"Però posso sbagliarmi. Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà una esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati.
"Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita. Questa almeno è la mia esperienza. Non posso dirvi altro."
Grazie, a distanza di trent'anni

 

Anche qui si affronta uno dei temi centrali del libro: la prospettiva in cui accettare, vedere la diversità.
La tendenza in generale della società è una tendenza riduttiva nei confronti del bene. Il professore del libro dice ai genitori: "Sarà una esperienza dura, ma vi arricchirà. Questo posso dirvi sulla base della mia esperienza". Il suo non è un discorso edificante, è un discorso realistico, però la società tende a rifiutarlo, perché tende a delegare il dolore al disabile. I disabili sono quelli che soffrono, sono quelli che incarnano la sofferenza. Durante il Giubileo il mio libro è stato citato da un giornalista importante, cosa che mi ha fatto piacere, che però poi ha aggiunto che nella Chiesa c'era il corteo degli infelici… Ma quali infelici! Avrei voluto dirgli: come osi chiamarli infelici, che diritto hai tu di chiamarli infelici? Qual è la tua prospettiva? Avrei voluto chiedergli se era felice sua moglie, se i suoi figli erano felici, se lui era felice. Il disabile soffre naturalmente di molti problemi, ma non incarna l'utilità marginale del dolore sociale, come vorrebbero gli economisti della sofferenza. I disabili hanno, vivono difficoltà, ma la prospettiva riduttiva consiste nell'attribuire loro un ruolo di sofferenza dovuta e di discriminarli rispetto agli altri. Quello che noi dobbiamo assumere, invece, è un occhio solidale. Siamo tutti sulla stessa barca… il corteo degli infelici comprende molte persone, direi tantissime. Quindi la disabilità è un problema che riguarda non solo i disabili, ma tutti. La tendenza, però, è sempre riduttiva, riduzionistica.
Allo stesso modo il bene che si riceve dal disabile non è una verità edificante, è una verità sperimentale. Costa. Però è anche vero che il dolore fortifica, che il dolore, la difficoltà sono una esperienza fondamentale. Però come reagisce attualmente la società? Affermando che quel professore dice così solo per consolare, come se loro vivessero in una condizione di privilegio. Purtroppo, o fortunatamente, la difficoltà riguarda ciascuno di noi, la disabilità riguarda il giovane, che vive forme di disabilità emotiva, psicologica, fisica, sessuale. Allora prendiamo atto che la disabilità è la nostra condizione.

 

Mistero del bene: il volontariato

La recita
Recita annuale dei disabili nell'oratorio di Paolo.
"Secondo te posso non venire?" chiedo a Franca con disinvoltura disperata.
"Ma certo!" mi risponde lei, noncurante.
"Come?" la guardo riconoscente.
"E' il terzo anno che recita e non l'hai mai visto." Ostenta una serietà neutrale. "Puoi continuare così."
"Lui come è rimasto?" le chiedo.
"Malissimo."
"Te l'ha detto lui?" insisto.
"No, lo sai che è orgoglioso. Mi ha chiesto solo se quest'anno venivi."
"E tu?"
Perché faccio domande? Mai fare domande.
"Non so, gli ho detto. Lo sai come è fatto il papà."
"E come è fatto?" le chiedo.
"Malissimo" risponde lei, come se rispondesse a Paolo.
Mi sto arrendendo.
"Qual è il titolo della recita?"
"Ulisse."
"Di Joyce?"
"No, di Omero."
Mi sono arreso.
Eccomi in questa sala disadorna, cosparsa di sedie metalliche che accerchiano un palcoscenico di legno. Dietro un tendone nero, che scorre con gli anelli lungo un bastone orizzontale, si irradia un chiarore intenso. Fari mobili prioettano sul soffitto di cemento luci colorate che si intersecano.
"Sembra un rifugio antiaereo" dico a Franca, che però, per età, non condivide il ricordo e, per tendenza, il paragone. Si guarda intorno nella sala gremita di visi accaldati, c'è un'atmosfera festosa, una massa calda, accogliente, che applaude ogni tanto per sollecitare lo spettacolo, ma lo fa con una distrazione benevola e complice. Lo spettacolo in effetti è già cominciato, lo si sta vivendo in platea, in questo incontro di parenti disperati, sorridenti, rassegnati, allegri, seri. Un ragazzo Down sporge la testa da un'estremità del tendone, guarda la sala, ride, si ritrae. Subentra una ragazza, anche lei scappa, si sente un trapestio, accompagnato da grida, sulle assi del palcoscenico. Mi balenano recite della mia infanzia, quando il palcoscenico non era quello dove pronunciavamo battute memorabili, ma la platea punteggiata di pupille e di luci. Per noi il teatro era il pubblico, verso il quale strabuzzavamo gli occhi in gesti per noi comicissimi. Mai ho sentito il teatro come allora, quando la linea che divideva gli attori dal pubblico appariva aperta nei due sensi. Eppure rimaneva invalicabile, una magia che ci soggiogava e stregava.
Cerco di trattenere la commozione, Franca mi chiede:
"Ti piace?"
"Sì, molto" rispondo.
Apro una breve parentesi che ha come oggetto il male.
Noi siamo abituati al male. Il male conferma la nostra superiorità o conforta la nostra debolezza. Ci è così familiare che il bene ci sconcerta e cerchiamo di ridurlo al male, commutandolo di segno e assimilandolo ai modelli negativi che ci sono noti.
L'ho osservato nelle reazioni più comuni, compresa la mia, di fronte al volontariato. La tendenza è di interpretare l'altruismo come controfigura dell'egoismo, la generosità come gratificazione di chi la esercita, la solidarietà come aiuto provvidenziale a se stessi, il sacrificio dell'Io come ricatto di un Super-io tirannico. Non si impara neppure dalla etologia, saccheggiata per spiegare l'aggressività, ma mai il suo contrario. Gli animali che si sacrificano per la prole o per gli altri sono anche loro vittime di un Super-io? No, dell'istinto, risponde l'etologia. Ma dell'uomo si nega questo istinto positivo, per dotarlo invece di tutti gli altri.
Il male – contrariamente a quanto si pensa – è rassicurante, lo veneriamo nei mostri, giustifica le vendette, mobilita le difese, rafforza la durezza del cuore. Il bene è un esempio inimitabile (vogliamo confrontarlo con il male?), supera fossati e mura che approntiamo contro il nemico, elude gli infiniti cavilli della intelligenza, disorienta l'astuzia perché la ignora, è disarmato e semplice. Il male ci incuriosisce e ci eccita, stimola l'investigazione, si cela nell'ultima stanza, quella del segreto infame. Il bene apre le porte, non nasconde nulla, si apparta solamente per non farsi notare. Il male promette misteri, il bene è un mistero luminoso, una presenza inaccettabile.
Sto parlando con cognizione di causa, ma sono in buona – o almeno numerosa – compagnia. Per molti uomini nulla è più edificante che la distruzione e nulla più ripugnante che la edificazione. Che le ideologie abbiano nel nostro secolo generato stermini non è perché additavano un paradiso remoto, ma perché prima dovevano realizzare un inferno immediato. Certo è più confortante – e soprattutto etico – capovolgere le gerarchie. E' un alibi di cui tutto si può dire tranne che non se ne sia approfittato.
Sto esagerando? Ma solo le esagerazioni ci restituiscono, nella caricatura, l'immagine in cui riconosciamo l'originale.
Ho sempre immaginato il volontariato – senza conoscerlo, naturalmente, solo la non-conoscenza favorisce la certezza – un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé. Finché ho conosciuto amici e amiche di Paolo. Questi giovani che lo accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista, a prezzo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi (chi salverà le tradizioni se non i giovani, i migliori, si intende?), sono gentili, misurati, discreti. In cambio non si aspettano nulla. Non si aspettano doni né ringraziamenti. E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpatia.
Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze. Non ho ancora capito come le consideri e non intendo approfondire. Immagino che abbia solide ragioni. Quando ancora gli si dice, dopo quindici anni di ingiunzioni, "Cammina dritto!", che cosa gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero, una punizione? Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza. Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L'imperativo occulto dell'educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti parole: "Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te". C'è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato?
L'aiuto agli indigenti, ai malati, ai carcerati è stato il comportamento che, alle origini, ha turbato milioni di pagani. Oggi che viene esercitato anche dai laici (ma che cosa c'è di laico nella religione dell'uomo?), si tende, più che a farne un modello, ad approfittarne.
Nel male, fingendo di non riconoscerlo, ci si rispecchia, nel bene un po' meno. Per un narratore il male è la salvezza, il bene la perdizione. L'elogio del bene ha inquietato perfino il sonno dei classici ed è stato l'incubo della loro veglia. Manzoni, per farselo perdonare, ricorre all'ironia, Cervantes alla follia, Dickens alla stupidità, Dostoevskij alla idiozia, Melville alla innocenza. Solo Hugo non esita a edificare al bene una cattedrale, ma a lui, ahimè, si perdona tutto.
Parlare bene del bene è imperdonabile. Infatti non me lo perdono. Ma dovevo pagare di persona l'impagabile aiuto di parenti, amici e sconosciuti.
Si apre nel brusio il sipario: il tendone scorre sul bastone di ferro finché il ragazzo che lo sospinge piomba contro il palo che lo sorregge. Una risata, quasi una ovazione, si alza dalla platea dei disabili e dei loro parenti. Non so se la regia – il responsabile figurava nella locandina con nome e cognome – l'avesse previsto. Certo non poteva cominciare meglio. Il resto è peggio.
Dire che è capitato tutto è dire solo una parte. Ulisse, gigantesco, le gambe ispide sotto il gonnellino bianco, sembrava uno scozzese in sandali sceso in Asia Minore. Calipso piangeva sul cocuzzolo di un'isola, tra onde di legno che scivolavano come in un cartone animato. Telemaco era l'unico non disabile presente sulla scena, ma non si notava la differenza. Studente di farmacia, mi aveva informato Franca, rivolgeva ad Atena frasi che non si capiva, tanta la chiarezza dell'intonazione, se erano domande o risposte. Di Paolo avevano sfruttato la voce cavernosa, per trasformarlo in un Poliremo laconico. Confesso che il suo dialogo con Ulisse-Nessuno aveva acquistato strane suggestioni, tra levantine e metafisiche, ma forse ero stato tradito dalla emozione.
Pezzi forti della regia erano Nausicaa, tutta vestita di bianco in riva al mare (la figlia Down di un avvocato seduto, gli occhi spiritati, in prima fila) e il banchetto dei Proci, con le loro compagne che attingevano senza risparmio da boccali di aranciata e addentavano panini farciti. Ho sempre provato insofferenza nel vedere gli attori mangiare: sia perché non partecipo alla loro occupazione, sia perché mangiano – come si dice con una metafora precisa – in punta di forchetta, triturando a bocca ermeticamente chiusa porzioni microscopiche. E non finiscono mai, educati, sensibili, impettiti. Bene, era un particolare ignoto alla recita. Restava invece inappagata l'invidia per una voracità famelica che gli attori non avevano ritegno a mostrare, ridendo con il pubblico mentre inghiottivano fette di torta o divoravano pezzi di cioccolato. Solo Penelope, ricoperta da un saio marrone (forse simbolo della fedeltà coniugale), conservava per tutto lo spettacolo una austerità straniante, degna di Jonesco.
L'ovazione meritata, entusiasta, riconoscente, alla fine premia tutti, attori e pubblico. L'unanimità, sogno infantile a occhi aperti, intramontabile utopia di chi non cresce, diventa qui un Eden malinconico.
Aspettiamo che Paolo esca dal tendone. Finalmente appare trionfale in cima alla scaletta, scende, sudato e rapito, i primi gradini, rifiutando con un gesto perentorio mani soccorrevoli, e scivola sugli ultimi due precipitando in avanti. Per fortuna eravamo ad aspettarlo in fondo alla scaletta, come ai genitori piace e ai figli no. E lui si è slavato tra gli ultimi applausi del pubblico, colpito questa volta dalla realtà.

 

 

Per me il volontariato è stato una esperienza emozionante: prima condividevo il pregiudizio intellettualistico che i volontari fossero persone che aiutavano, ma che in fondo lo facevano anche per gratificarsi. Buona parte degli intellettuali pensa questo: la generosità è una forma di autocompensazione. Chi aiuta gli altri lo fa anche perché obbedisce ad un super io tirannico, che gli pone come ideale l'assistenza.
Io mi sono chiesto come mai dal comportamento degli animali impariamo tutto sull'aggressività, però non impariamo niente per quanto riguarda i comportamenti solidali: madri che aiutano il figlio, animali che addirittura si sacrificano per gli altri.
Nel libro la figura della madre è molto più dolce, generosa, appassionata che quella del padre. Anche qui per il narratore è una scoperta. Se vogliamo uscire dalla figura del narratore e parlare in prima persona, io ho constatato che nella prima metà della vita si accumulano pregiudizi che poi la seconda metà della vita serve a dissolvere. Nella seconda metà della vita in molti casi vi è come lo smantellamento di assurdità accumulate nella prima. Così anche nei confronti delle donne: fino ai trenta, trenta cinque anni ero convinto della superiorità maschile. Gli uomini lo hanno sempre pensato fino a pochi anni fa: mi ricordo che non c'era nella mia classe maschile al liceo Carducci di Milano chi non pensasse che se una moglie avesse tradito il marito, lui aveva il diritto di ammazzarla. Non eravamo una classe criminale: eravamo convinti. Quindi io ho creduto nella superiorità maschile finché ho capito che i punti su cui la poggiavo, per esempio le qualità che consideravo tipiche dell'uomo come il coraggio, la lealtà, non erano poi molto diffuse tra gli uomini. Così come non era diffusa neanche l'intelligenza: non era una merce così a buon mercato, era abbastanza rara e più spesso si trovava nelle donne che negli uomini, perché gli uomini sono anche condizionati dagli ideali normali della performance, dalla prestazione, della sfida, della superiorità. La donna è più duttile, più flessibile, meno schematica. Ci sono voluti anni per capirlo…
E così anche per capire il volontariato, per capire gli uomini che aiutano gli altri, per capire che non lo fanno per compensare le proprie lacune ma lo fanno per uno slancio profondo che possiedono, per un loro ulteriore percorso culturale, religioso, etico. Perché dobbiamo pensare che il bene lo si fa solo perché si ha paura a fare il male, solo perché si vuole compensare? Ho dovuto arrendermi all'evidenza che i giovani che aiutavano mio figlio, e lo racconto, non erano dei sinistrati che volevano gratificazioni, erano animati da uno slancio positivo: una scoperta emozionante, perché noi siamo abituati al mistero del male, il Misterium iniquitatis, che sta al centro anche del dibattito teologico da migliaia di anni di cristianesimo e non solo di cristianesimo. Ma il mistero del bene è altrettanto fondamentale. Purtroppo noi o la tendenza sociale lo diamo per acquisito in forme riduttive. Il bene è difficile da avvicinare. In un'intervista mi hanno chiesto se per aiutare i disabili bisogna essere buoni. Non lo penso affatto. Cristo quando è stato chiamato buono, ha detto: "Perché mi chiami buono? Buono è il Padre mio che è nei cieli". La bontà è una conquista. Così come la fede è una conquista. Certo ci sono persone miti, ma l'atto buono è un atto sorprendente, è un atto generoso, è una invenzione, è una scoperta, è una conquista.
Il disabile non deve essere aiutato da uomini buoni, ma da uomini intelligenti, uomini che amano il bene: è tutta un'altra cosa. Il bene è quello che dà e produce bene. Un grande filosofo americano, William James, che ha studiato il bene anche nell'ambito religioso, diceva che anche l'esperienza religiosa importante è quella che si comunica agli altri, che produce bene. Con questo non voleva dire che un anacoreta non facesse una esperienza religiosa, ma che se l'anacoreta fosse entrato in società, allora l'esperienza religiosa si sarebbe rivelata dal bene che produceva. Faceva l'esempio curioso di una suora che in un convento lasciava le varie attività per andare a pregare in cappella, dove diceva di avere appuntamento con Gesù… ne aveva tanti, per cui non faceva più nulla. Quando tornava da questi colloqui con Gesù diceva che erano colloqui privati, non ne parlava così le altre suore non imparavano niente. James usa una parola inglese "flirtation": aveva una lunga "flirtation" con Dio, ma la sua non era una esperienza religiosa, perché questa la si capisce dai frutti che produce. dal fatto che diventa bene per gli altri.
Anche nell'ambito della disabilità noi riconosciamo che il volontariato è importante per il bene che fa. Ho constatato che mio figlio preferiva i disabili e i volontari a noi. Stava bene. Quello che il volontariato dà ai vecchi, per esempio, non è solo l'aiuto materiale, ma una cosa di cui il vecchio ha un enorme bisogno: la simpatia. Il disabile ha, dà simpatia perché lo fa gratuitamente, perché non lo fa per professione, perché dare aiuto è una conquista. E direi che la simpatia è persino più importante dell'amore. Certo l'amore è fondamentale, ma non è così facile, non è un dato anagrafico.

La fede non è fuga ma conquista

 

Preghiere
La guarigione, finché Paolo ha avuto due anni, doveva essere completa. Era la mia richiesta quando pregavo, la domenica, durante la messa. Avevo ripreso ad assistervi dopo anni di distacco e, supponevo, di congedo. Ero convinto da una voce interiore (la udivo distintamente, direi fisicamente, e non mi sembrava la mia) che sarei stato esaudito.
In seguito ho diminuito la richiesta. Ho abolito l'aggettivo completa. Mi bastava che la guarigione fosse parziale. Ero disposto, in quella trattativa appassionata quanto squilibrata con chi può tutto, ad accettare qualche minorazione in Paolo. Concessioni (non so se a me o all'Onnipotente) che una volta mi sarebbero parse atroci; ma che ora – poiché le sue condizioni si rivelavano più gravi, almeno rispetto alle nostre aspettative – mi sembravano accettabili. Sentivo la voce, dopo un silenzio prolungato, che mi rispondeva sì, lo otterrai.
Uscivo da quell'appuntamento rinfrancato. E anche confortato dalla mia accortezza nella trattativa. Non promettevo cose che non avrei saputo mantenere. No, non avrei lasciato lei, questo non lo promettevo. Non potevo perderla per una mia decisione, né ero pronto per una amputazione cui non avrei saputo rassegnarmi. Neanche l'Onnipotente del resto me lo chiedeva. Mi sentivo abbastanza sicuro della sua tolleranza, anche se preferivo non sottoporlo – e sottopormi – alla prova del sì. Che cosa avrei fatto se mi avesse risposto di no?
Mi rendo conto che quel modo di pregare può apparire assurdo o irresponsabile. Posso solo rispondere che era il mio. Taccio però il trasporto, il fervore e il rapimento con cui pregavo. Lo lascio – come dicevano una volta i narratori quando volevano sottrarsi al rischio di una caduta – immaginare al lettore. Altri invece, oggi soprattutto, lo raccontano, ma non so se il lettore ci guadagna. L'emozione è insidiata dalla commozione, che vela gli occhi e ostacola la voce. Basta che il lettore attinga alla sua esperienza e non avrà difficoltà a capire. E' certo che nessuno prega l'Onnipotente con le mani in tasca.
Facevo invece concessioni sugli incontri con lei. L'avrei vista una volta in meno alla settimana, benché questo comportasse trattative anche con lei, che ignorava le mie trattative con l'Onnipotente. E promettevo inoltre sacrifici della gola, non privi di ricadute positive sulla dieta, che da sola non sarebbe bastata a impormeli. Forse contavo, per questo compromesso utilitario, sulla longanimità e l'indulgenza del io Interlocutore. Non sulla sua distrazione, data l'onniscienza.
Questa bilancia paranoica del dare e dell'avere non so dove l'abbia appresa. Può darsi da bambino nelle scuole religiose, dove una giustizia finalmente divina garantisce la remunerazione dei fioretti. Era comunque un progresso rispetto ai comandanti romai, che per non vedere, prima di una battaglia, segnali sfavorevoli degli dei, chiudevano le tende della portantina, sperando di indurli a un cambiamento di programma. Io forse, ammaestrato dai secoli, non seguivo un legalismo formale, ma una linea più morbida.
Chiedevo una guarigione miracolosa, ricordando che nei Vangeli la fede l'aveva spesso ottenuta. Ma com'era la mia fede? Intermittente e ondulatoria: alta nelle occasioni del bisogno, tenue e circospetta nelle altre. Quando ci chiediamo se gli antichi credevano veramente, dovremmo chiederci come crediamo noi.
C'era però qualcosa di invincibile nel bisogno di pregare, una necessità non meno ineluttabile di quella in cui mi dibattevo. E che la ragione la considerasse irriducibile a sé non mi inquietava, perché la sua evidenza era maggiore. Vivevo questa percezione solo quando pregavo, come la luce abbagliante di un falò a pochi metri di distanza. A mano a mano che mi allontanavo, il chiarore diminuiva nella notte e si dissolveva nella luce del giorno. La frase che nei Vangeli congeda chi crede alla guarigione, "Va', la tua fede ti ha salvato", io la sentivo quando ero vicino al fuoco. Ma non mi accompagnava più mentre rientravo a casa, trasformata in una palestra nevrotica per progressi troppo lenti. Solo adesso, trent'anni dopo, comincio a capire: ovvero ad acquistare, almeno retrospettivamente, più pazienza. Da giovani chiediamo a Dio tutto e subito, perché Dio è giovane come noi. Poi invecchiamo e anche Dio diventa più lento. Del resto ci ha lasciato il tempo per maturare. In questi giorni sono stato visitato, per un mio disturbo, da un giovane omeopata, cui ho chiesto incautamente: "Guarirò?". Mi ha guardato perplesso e mi ha risposto: "Lei parla di guarire? Se pensa alla morte vedrà che il verbo guarire non può più avere il senso che lei gli attribuisce".
Ho annuito, stupito a mia volta che un giovane, di trent'anni minore di me, avesse riflettuto così proficuamente sul tema della guarigione. Comunque ho cambiato medico.
La sua frase mi ha per altro aiutato a capire che neanche dalla stupidità guariamo completamente. E sulla preghiera ho cambiato idea, come sulla guarigione. Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente.
Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l'ho negata anch'io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un'eco.
Lo so che prega chi sopravvive e chi muore, chi vince e chi va incontro alla sconfitta. Ma ho rinunciato da tempo alla contabilità celeste, al bilancio del dare e dell'avere, alle aspettative fiscali del divino.
Mi accontenterò (mai verbo più malinconico e più lucido) di un ultimo appuntamento con la voce. Quando tutto mi mancherà, lei non mi mancherà.
Un disabile crede per compensazione. Questo almeno è ciò che credono gli altri. L'interpretazione astuta e caritatevole, non manca di una sua coerenza. Se ci si rivolge all'Onnipotente quando se ne ha bisogno (la cosa accade anche nei rapporti tra gli uomini), chi, più del disabile, che vive nel bisogno di assistenza, ha bisogno di Lui? Questo confermerebbe tra l'altro che i miei rapporti con l'Onnipotente non sono poi così anomali rispetto alla media.
"Che fortuna!" dicono della fede di Paolo. "Altrimenti, nelle sue condizioni…" aggiungono i più sensibili, senza finire, per delicatezza, la frase. "Che aiuto formidabile!", commentano i più euforici. I più cinici, che si sentono anche i più lucidi, riprendono Voltaire: "Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla". Non pensano a se stessi, pensano a lui. E' l'utilità marginale dei disabili, come direbbe un economista del dolore sociale. Hanno una delega collettiva a soffrire per gli altri. E il loro carico si ingigantisce perché vi si occulta quello universale. La realtà però è lievemente diversa. Abituati a convivere con la minorazione – e a sopportarla –, i disabili non ne hanno l'immagine insopportabile di chi è sano. E la fede non è una fede, ma una conquista.
I poveri avranno il regno dei cieli, non è un cambio sfavorevole. Chi ha il regno della terra, ovvero di una sua particella, non ha di che commiserarli, ma lo fa ogni volta. E' l'aspetto grottesco di un rapporto dove chi commisera è il primo che dovrebbe essere commiserato. Guai però a dirglielo. Chi ostenta pietà non sospetta di ispirarla negli altri. E' anzi il suo modo di esorcizzarla e di tenerla lontana. Mentre è la via più breve per meritarla.
So che Paolo ha una attrazione particolare per le cerimonie. Preferisce quelle festose, come battesimi, cresime e matrimoni, ma anche quelle funerarie lo riempiono di gratificata compunzione. Glielo ho fatto notare cercando di essere lieve e ironico, ma non ha gradito.
E' bravo – mi riferiscono voci di quartiere – anche nelle consolazioni per la perdita di parenti e amici, un genere classico che sembra caduto in disuso. Lui invece impiega le risorse di un linguaggio lento e roco per dire parole che sembrano arrivare da lontano ed emozionano chi le ascolta. La cosa mi fa piacere e mi turba. Non vorrei ne sopravvalutassero la forza perché espressa dalla debolezza.
Decido di essere sincero con lui (ossia ho bisogno di lui) e gli confesso che resto, a queste notizie, sia contento sia sconcertato. Lui mi guarda, a sua volta, rassegnato e deluso. Mi dice con la sua voce affaticata:
"Sei stupito, vero?"
Una volta mi ha detto, con una gravità sorridente, una frase di assonanza evangelica:
"Non sei solo tu il maestro."
Mi capita di ricorrere a lui come intermediario. Si vede che condivido, a mia insaputa, l'idea che la minorazione abbia un accesso speciale presso l'Onnipotente. E che l'Onnipotente sia a sua volta sensibile alle raccomandazioni. Sono talmente colpito dall'assurdità di questa prospettiva che cerco di difendermi pensando a quanti la condividono. Il risultato è soltanto che la ingigantisco di scala e che una assurdità collettiva getta la sua ombra (o la sua luce?) anche su di me.
Lui mi guarda e intuisce di quali percorsi tortuosi è frutto la mia richiesta. Mi risponde con una frase che forse ha sentito in chiesa o all'oratorio (nel giudicare obiettivamente i figli oscilliamo tra la megalomania compensatoria e la sottovalutazione apprensiva). Ha comunque il merito di farla sua al momento giusto, che è un modo in cui si manifesta l'originalità:
"Guarda che la preghiera non è magia."

 

Il capitolo delle preghiere è un capitolo in cui si sono riconosciuti molti laici. Mi ha molto sorpreso la scoperta che molte donne e molti uomini che si professano atei in realtà pregano … io non li chiamerei atei, perché non penso affatto che si preghi quando si scopre la propria debolezza, ma quando si scopre la verità del nostro rapporto con l'esperienza e con Dio. Che poi questo avvenga nei momenti di debolezza, è semplicemente perché l'euforia non favorisce l'intelligenza. La fede, per collaudarsi, ha bisogno anche di momenti duri, ma non sono i momenti duri che spiegano la fede, sono i momenti duri che ne rivelano la latenza, la presenza sotterranea e la fanno emergere.
Anche nel capitolo "Le preghiere" io ho mostrato il modo paradossale in cui si prega, in cui molti pregano, credenti oppure finti non credenti. In realtà ho scoperto che moltissime persone hanno avuto il coraggio di ammetterlo dopo che io avevo raccontato che si prega in modi apparentemente assurdi, entrando in trattative col Signore, facendo fioretti, anche abbastanza arrischiati. Il narratore ha un'amica il cui pensiero lo assillava anche nel momento in cui nasceva il figlio: in cambio di un miglioramento delle condizioni del figlio, chiede al Signore, contratta col Signore, compie una sorta di patteggiamento. Questo è parso a qualcuno una cosa assurda. Nel romanzo ho detto solo a che cosa corrisponde il mio modo di pregare. E ho scoperto che molti pregano in questo modo, entrando in una sorta di trattativa. Dentro c'è tutto un percorso teologico perché sono millenni che l'uomo si interroga sui modi in cui pregare. Io l'ho raccontato da un punto di vista esistenziale, dentro l'esperienza di un uomo, un uomo debitamente squilibrato, ma come è squilibrata la maggior parte degli uomini.
In un'intervista una ragazza mi ha chiesto: "Ma perché quell'uomo, proprio nel momento in cui nasce un figlio è preso da un'altra donna, dal pensiero di un'altra donna? Perché l'ha raccontato?": L'ho fatto per molte ragioni, l'ho fatto perché narrativamente è efficace, statisticamente è frequente e perché da un punto di vista ideale l'handicap non è uno squilibrio che irrompe negli equilibri delle famiglie, è uno squilibrio che irrompe nello squilibrio delle famiglie. La maggior parte delle famiglie ha problemi, tra genitori, genitori e figli, suocere, nuore. Noi dobbiamo acquistare coscienza di questo se vogliamo capire anche la complessità dei rapporti con l'handicap. Dobbiamo accettare di vedere l'uomo anche nel suo squilibrio e la famiglia quasi sempre come squilibrata. Naturalmente non voglio negare che ci siano famiglie straordinariamente forti dentro, ma ci sono sempre comunque tensioni, conflitti: questa è la verità che dobbiamo aver presente se poi vogliamo andare più a fondo, non coltivare una immagine falsificante. Anche per l'handicap non possiamo accettare questa immagine del buio che irrompe nella luce. No, è un disordine che si aggiunge ad altri disordini e se abbiamo la consapevolezza della nostra inadeguatezza, allora possiamo cominciare ad affrontarlo.
Un grande studioso della fenomenologia delle religioni, Van der Leeuw,ha definito l'ateismo fuga da Dio, fuga da qualcosa che si teme: non è che l'uomo, anche l'ateo, non creda in Dio, è che fugge. La posizione di Van der Leeuw è scientifica, in realtà. È difficile che l'ateismo, come scelta speculativa, come conclusione di un percorso intellettuale, sia così neutrale. In realtà è presente una spinta emotiva alla fuga: l'ho constatato in molti che all'apparenza sono atei.
In un rifiuto radicale c'è una condizione ulteriore di dramma, non perché la fede sia un aiuto in soccorso di chi ha bisogno, ma perché è in soccorso all'uomo: l'uomo ha bisogno di credere. La teologia poi parla anche di un bisogno di Dio: Dio ha bisogno dell'uomo. Chi rifiuta totalmente questo dialogo, anche nelle forme paradossali che io ho raccontato, certamente vive il dramma in modi più duri.
Ciò che io rifiuto è che la fede sia un aiuto al disabile. La fede è un aiuto all'uomo ed è conquista dell'uomo. Tutti noi siamo disabili e abbiamo bisogno della fede. C'è la chi la rifiuta, ma non perché sia abile o disabile. Anche un disabile potrebbe non credere. Quello che mi ripugna è l'idea che il disabile abbia più bisogno degli altri: il disabile, come gli altri, può avere una fede che si rivela come ricchezza, come capacità di dare, come capacità di coinvolgere.

Avevo in mente di fare un romanzo bello, possibilmente, in cui fosse presente la bellezza, anche nei modi più sconcertanti, più drammatici. Penso che la bellezza faccia parte del mondo e aiuti a sopportare il mondo e penso che la bellezza ci sia anche nel dolore, anche nella tragedia. I greci facevano della tragedia un momento di bellezza.
Io penso che il compito dell'uomo, e in questo sento molto l'ideale dei greci, sia quello di far fronte alla difficoltà, di fronteggiarla, di sopportarla, di sopportarla con forza. Il cristianesimo dà una speranza grandiosa e questo è un aiuto ulteriore, potente, immenso. Ma anche chi non ha una fede certa, una fede come io racconto, chi ha una fede sottoposta ad alti e bassi, una fede intermittente, a volte potente, a volte meno, comunque crede, non deve secondo me abbandonarsi alla disperazione.
Ho dedicato il mio romanzo ai disabili che lottano e già nella lotta c'è una idea positiva. La vita va affrontata con coraggio e poi questo coraggio sarà anche ricompensato.
Naturalmente chi ha una fede continua ha una ricompensa più alta, piena. Chi ha una fede intermittente ce l'ha meno forte, ma ce l'ha anche lui. Perfino chi non ha fede, ma crede in un uomo che deve saper affrontare il suo destino, deve volerlo senza non subirlo, volerlo perché è suo, questo ideale etico lo aiuta molto.
Quando hanno annunciato a David Hume, filosofo inglese del Seicento, filosofo per eccellenza dello scetticismo che avrebbe avuto un periodo molto limitato da vivere, lui ha detto (così sta scritto nella sua autobiografia, che poi è terminata con la morte): "Devo riconoscere che è stato uno dei periodi più sereni della mia vita". Aveva fatto fronte all'angoscia, alla paura e si era riconosciuto, aveva riconosciuto se stesso in questa capacità di far fronte, nella capacità di fronteggiare il male. Anche se è una cosa difficile, molto difficile.