Dal diario di Jim Carroll:
Jim ha cambiato strada
Talvolta mi sorprendo seduto sul bordo del divano a osservare lo sfarfallio della televisione come un cervo paralizzato in mezzo alla strada dai fari di un'automobile. Mentre le immagini scorrono, le sento nutrire la mia inerzia...
Oggi sono stato alla chiesa strana... ho da prendere una decisione importante. Mi è data l'occasione di una lettura di poesia in California la prossima settimana. Significa viaggio aereo gratuito andata e ritorno, ma se voglio restarci, mi dicono che mi danno un biglietto di sola andata e aggiungono i soldi risparmiati al mio onorario. Visto che in questi ultimi tempi in tutte le loro lettere e telefonate gli amici mi hanno tanto decantato gli splendori della vita sulla West Coast, e visto che di qualche cambiamento ho pur bisogno, può darsi che accetti l'offerta. Strano come sia giunta proprio mentre valutavo una mossa del genere. Certo che sarebbe un cambiamento radicale.
Accendo un cero a san Francesco. Sono stanco di questi beati ignoti, di piccolo cabotaggio. Ho bisogno di un santone per un interrogativo come questo. Una cosa è sicura: ho raso al suolo questa città nella mia carne, nel cuore e nello spirito. Sono stufo marcio della velocità di New York, dell'accelerazione costante e delle sue forzate perversioni e oscillazioni. Non ne posso più del bisogno di tirar tutto dentro... ogni festa, ogni apertura... sempre a strappare quasi in senso letterale il mio corpo in direzioni diverse. Mi sento come un ufficiale o, più propriamente, un fante che combatte una guerra su quattro fronti, sempre in attesa che gli comunichino che lo hanno invaso da un'altra parte ancora. Non so come disfare ciò che è stato fatto. C'è nella mia testa un introvabile nodo di false facciate che ho eretto da me... ditte fantasma che stanno a indirizzi che non sono altro che un recapito postale in qualche negozio abbandonato con le vetrine spennellate di biacca...
Sono le cinque meno un quarto. Sfilo la spina del televisore. I fantasmi sfarfallanti si contraggono sullo schermo condensandosi in un punto, poi è tutto nero. Sto per spegnere la luce quando mi accorgo del liquido verde che mi cola dall'avambraccio. L'indistruttibile ascesso che ho nell'incavo del gomito e che dovrebbe essere ormai in procinto di celebrare il suo secondo natale, questa notte è più rigoglioso che mai. Non c'è di che meravigliarsi, a ben pensarci: tutto quel tempo di immersione nell'acqua calda deve aver liquefatto la vomitevole sostanza. Scorre dal solito forellino. Prendo un fazzoletto di carta, ci sputo sopra e mi ripulisco l'avambraccio. Di solito, quando cola così copioso, mi viene la tentazione di provarci... schiacciare da ogni parte l'odiato focolaio nella speranza di farlo scoppiare una volta per tutte e avviarne la guarigione. Ma sono troppo fiacco per affrontare la sfida, perché così è diventata ormai. Mi induce in tentazione con una gocciolina, poi per ore mi ritrovo alle prese con la mia schifosa nemesi, senza esclusione di colpi, a pizzicare e forare da destra e sinistra, da sopra e sotto. Vince sempre lei. Spremo un po' di liquido nauseante, ma il focolaio resta intatto. E quegli stronzi di dottori mi dicono che non è il caso di incidere, che guarirà da solo. Ma loro non devono sorbirsi il suo dispetto, le sue incitazioni ad auto mutilarmi, l'esasperazione della sua resistenza: corpo, mente e anima. Ha assunto proporzioni demoniache. Dio del cielo, l'ho santificato, questo bastardo: me lo accarezzo nel sonno. No, ho deciso di accettarlo. Sono stanco. Mi allungo di nuovo per spegnere la luce. Ma esito. Forse una strizzatina. In fondo sta letteralmente traboccando. L'ho asciugato due volte e continua a bagnarsi. Va bene, ma solo un tentativo. Giusto per valutare la situazione. Sono troppo stanco, uscirne sconfitto servirebbe solo a svegliarmi. Protendo il braccio destro, quello che contiene il piccolo abominio. Applico pollice e indice della mano sinistra ai lati della ferita e cerco i punti di resistenza giusti dove attaccare. Questo è il momento in cui, nonostante il ripetersi delle mie sconfitte, risorge in me la speranza. Mi si tendono i muscoli dello stomaco. Penso al gatto che in California stava morendo soffocato per un ascesso e alla splendida sensazione che ho provato nell'aprire quella ferita, nel guardare sgorgare la materia infetta e nell'udire il suono gratificante della bestiolina che riprendeva a respirare, risucchiava nei polmoni l'aria di un'altra occasione. Voglio provare quella sensazione. Per quanto mi sia ripulito, questo buco nel braccio resta a simbolo del mio vizio, un tatuaggio alla memoria inciso da me stesso, come per un'innamorata, in omaggio a quella malattia, per perfezionare la quale ho impiegato anni. Le mie dita sono pronte, un po' più distanziate del solito. Mi coglie una sensazione strana, come quando giocavo a basket e non so come sapevo che non avrei sbagliato. Spingo le dita l'una contro l'altra, lentamente e con un movimento uniforme, lasciando che quella sensazione strana mi guidi nell'applicare la pressione giusta, come faceva con la punta delle mie dita anni fa quando lanciavo una palla verso il canestro senza prendere la mira. Il liquido schifoso sgorga rapido... lo sento più fluido del solito sotto la pelle, per tutto il tempo rimasto nell'acqua calda mentre dormivo nella vasca. Ma lo scoppio finale non c'è. Incremento la pressione cambiando l'angolazione del pollice. Schiaccio più forte... esce bava verde, mi gocciola dal braccio... la sensazione mi dà le vertigini... non posso sbagliare... più forte ora... oh, Dio mio... esplode. Sprizza, non solo dal forellino in basso, ma dal centro, in un getto come un raggio laser. Esce in varie tonalità di giallo e verde, seguito dal sangue. Quando quella pelle caparbia ha finalmente ceduto, dopo tanto tempo, mi è sembrato di udire un'espressione sonora, come un gemito, o il lamento stanco e sfiatato di chi ha perso un lungo, lunghissimo duello. Potrei giurarlo. Potrei giurare di aver udito quel suono. Dal cassetto del comodino ho preso batuffoli di cotone e acqua ossigenata, ricordando tutte le notti in cui me l'ero applicata in preda alla frustrazione. Ma non ho cominciato a pulire, ho continuato a schiacciare. Volevo anche le ultime vestigia dell'orrore che si annidava là dentro. Volevo prolungare il sapore della vittoria. Non provavo disgusto per il liquido, per le macchie che aveva sparso sul mio lenzuolo. Ogni possibilità di disgusto era soverchiata dalla gioia. E poi dovete capire che quello che avevo davanti non era un semplice liquido organico infetto. Per me era la restituzione di tutte le porcherie maltagliate che per tanti anni mi ero inserito nel corpo con tanta precisione. Quelli erano i residui tossici di tutti i miei peccati del passato (ecco, l'ho detto!). Non ho visto pus; ho visto uscire marciando un esercito di demoni meschini. Ho visto la purificazione, sull'onda dell'aria fresca che veniva risucchiata nella cavità, come il gatto. L'idolo era in frantumi. Capite che cosa vi sto dicendo? So che voi ci vedete qualcosa di malato, un feticcio sgangherato. Ma io ne comprendo la natura e so che quella malattia sta passando. Contemporaneamente guarisco anch'io. Possibilissimo che ci ricaschi. Non so dove andrò da qui, ma almeno ho elevato la qualità del mio vivere sopra il livello di scarafaggio. New York non è la stessa, questo è certo. Mi sento, come ho detto, più vicino al mio cuore. Provo conforto nell'essere solo. E, mamma mia, non voglio assolutamente rifarci.