L’UNZIONE DEGLI INFERMI

 

BIBLIOGRAFIA

 

AA. VV. Il sacramento dei malati, Leuman (Torino) 1975.

AA. VV. L’unzione egli infermi, “Communio” n. 70 (1983).

J. FEINER, La malattia e il sacramento della preghiera dell’unzione, in “Mysterium salutis”, v. 10 (=MS 10).

B. POSCHMANN, Penitence et onction des malades, Paris 1966.

T. SCHNEIDER, Segni della vininanza di Dio, Brescia 1983.

B. SESBOUE, L’onction des malades, Lyon 1971.

 

 

Con l’unzione degli infermi ci troviamo di fronte a un sacramento che non presenta gravi problemi, ma in cui tutto è un po’ problematico, a cominciare dallo stesso nome (estrema unzione o unzione degli infermi?), dalle radfici bibliche e storico-dogmatiche, fino alla specificità e agli effetti.

 

Quello che è certo è che si tratta di un sacramento con cui “la Chiesa raccomanda al Signore sofferente e glorificato i fedeli gravemente infermi affinché li sollevi e li salvi” (Codice D. C., c. 998), quindi di un sacramento che ci pone di fronte al problema della malattia e del suo significato alla luce della fede.

 

ORIGINE E SVILUPPO DEL SACRAMENTO DEI MALATI

 

Per giustificare l’istituzione da parte di Cristo dell’estrema unzione contro la negazione dei Riformatori, il Concilio di Trento dice che questo sacramento è stato insinuatum in Mc 6, 13 e commendatum ac promulgatum per mezzo dell’apostolo Giacomo (Gc 5, 14-15) (DS 1695). Il richiamo dei due testi del N.T. non è evidentemente un dogma, ci dice però che l’unzione degli infermi trae origine dai dati della Rivelazione ed è in essa che va cercato fondamentalmente il suo significato.

 

Trattandosi di un sacramento che riguarda i malati, è naturale che il primo dato da considerare alla luce della Rivelazione è la malattia. A conclusione di uno studio sul significato biblico della malattia, B. Maggioni scrive: “La malattia, letta all'interno dell’esperienza di fede, è un “segno”: un segno della presenza del peccato nel mondo e, più a fondo, che l’allontanamento da Dio e delusione e morte, che l’uomo non si costruisce sottraendosi all’amicizia di Dio. La malattia, sempre all’interno dell’esperienza biblica, è una “occasione” di fede, un incontro con la “vera” presenza di Dio: un Dio che da la vita eppure sembra compiacersi dell’abbandono. Perciò la malattia - prima che un atto di amore per Dio - deve essere di un atto di fede nell’amore di Dio presente sotto apparenze di morte. Ma soprattutto Gesù, attraverso la sua sofferenza, ci ha insegnato che la sofferenza, si fa salvezza, se si trasforma in un atto di amore” (in “Il sacramento dei malati”, 57).

 

Di fatto, come si voglia spiegare, nella Bibbia la malattia è in stretta relazione con il peccato e quindi con l’opera di salvezza, tanto è vero che nei vangeli le guarigioni di malati occupano tanto posto nell’attività di Gesù e alcune guarigioni sono accompagnate anche da una remissione dei peccati. E’ giusto dire che le guarigioni operate da Gesù non possono essere “più di un segno che indica, esprime ed attesta il compimento escatologico fisico-spirituale dell’uomo” (MS 10, 598), ma questo segno è così importante per Gesù “che quando invia i discepoli ad annunciare il Vangelo nel mondo conferisce anche il potere di guarire gli infermi” (ibidem).

 

In Mc 6, 13 si dice che i discepoli che “partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano”. L’unzione con l’olio e menzionata tra gli altri elementi che caratterizzano l’annuncio del Regno ed è segno del potere comunicato da Cristo agli apostoli. Gli stessi apostoli opereranno poi molte guarigioni nel nome di Gesù (cf. At 3, 16; 4, 10.30).

 

Il brano classico per l’unzione degli infermi è Gc 5, 13-16: “Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, salmeggi. Chi è malato (asthenei), chiami a se i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui dopo averlo unto con olio (elaio) nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato (sosei ton kammonta). Il Signore lo rialzerà (egeirei) e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni gli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti (iathete). Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza”.

 

Per l’esame del testo cf. MS 10, 606-614, in cui vengono ricavati i seguenti punti:

1. Un fedele seriamente infermo deve chiamare i capi ministeriali della comunità.

2. I presbiteri dovranno pregare per l’ammalato e ungerlo con l’olio.

3. La preghiera di questi capi, accompagnata dall’unzione provoca nell’infermo un rinvigorimento sia del corpo che dell’anima.

4. L’ammalato ha commesso delle colpe e le confessa, la preghiera dei presbiteri può procurare anche il perdono dei peccati”.

 

Da queste indicazioni bibliche era naturale che si passasse nella Chiesa a un rito di unzione degli infermi. Tuttavia, se consideriamo l’evolversi della storia di questo sacramento, ci troviamo di fronte a molti problemi.

 

Il primo problema nasce dal fatto che nella letteratura cristiana antica la unzione degli infermi viene attestata molto raramente, tanto che alcuni autori protestanti ritenevano che l’attuale sacramento avesse avuto origine nel medioevo. Questa conclusione no s’impone per due motivi: 1)Il relativo silenzio dei Padri si spiega con l’importanza secondaria dell’unzione degli infermi: “Non bisogna attendersi a priori che sia stato oggetto di un dibattito particolare, mentre il suo uso non era contestato in nessun luogo, come del resto anche attualmente essa non è nominata che raramente che nei discorsi e negli iscritti di pratica religiosa” (Pschmann, 206). 2) Abbiamo la testimonianza degli antichi testi liturgici che ci trasmettono le benedizioni dell’olio degli infermi (Tradizione Apostolica di Ippolito ed Eucologio di Serapione Di Thmuis).

 

Importante è la lettera di Innocenzo I a Decenzio vescovo di Gubbio (a. 416) che ricorda il testo di Giacomo: “Non è dubbio che questo (testo) si deve prendere o intende per i fedeli malati che possono essere unti col santo olio del crisma, il quale, benedetto dal vescovo, si può usare per unzioni non solo per i sacerdoti ma anche per tutti i cristiani nelle necessità loro e dei loro congiunti... Ai penitenti questo non si può dare perchè è un sacramento (genus est sacramenti). Infatti a coloro cui sono negati gli altri sacramenti, come si crede che possa essere concesso questo?”

 

La lettera di Innocenzo fu considerata un testo normativo.

Dalle testimonianze dell’epoca patristica (cf. Poschmann; Feiner; Schneider) si deduce:

1) L’attenzione, più che alle preghiere per l’inferno, è rivolta al potere dell’olio consacrato dal vescovo o dal presbitero.

2) Come effetto dell’unzione ci si attende soprattutto la salute del corpo, anche se talvolta appare il perdono delle colpe.   L'unzione non appare mai come preparazione alla morte.

3) I destinatari non sono i moribondi, ma tutti i fedeli che hanno qualche malattia.

4) L’unzione viene fatta in genere dai presbiteri, talvolta però viene praticata anche dai laici o lo stesso infermo può ungersi o bere l’olio consacrato. Sarebbe anacronistico chiedersi se nel caso dell’uso dell’olio senza l’azione dei presbiteri si sia pensato a un vero conferimento del sacramento.

 

In occidente, a partire dal sec. VIII, avviene un profondo mutamento ne modo di praticare e di intendere l’unzione degli infermi. A parte le variazioni a livello rituale, il fatto che, per vari motivi, l’unzione degli infermi fu in pratica associata alla penitenza dei moribondi e al viatico, fece sì che i destinatari diventassero i malati in pericolo di morte e quindi l’unzione divenne la extrema unctio.

 

Tale cambiamento dei destinatari influì sulla concezione del sacramento: ora l’effetto principale è considerato la guarigione dell’anima, la purificazione dei peccati in vista del prossimo giudizio di Dio, mentre la guarigione dell’infermo passa in seconda linea. Tali idee predominano pure nel periodo della Scolastica.

 

Il Concilio di Trento parla della extrema unctio, ne difende il carattere sacramentale e il rito usato dalla Chiesa Romana; specifica che gli effetti sono il conferimento della grazia, la remissione dei peccati e il conforto dei malati, e in fine afferma che i ministri del sacramento sono i sacerdoti (DS 1716-1719).

 

Nella Dottrina del Tridentino, pur essendo presenti le prospettive della teologia medievale, si nota un respiro più ampio. I destinatari non sono solo i moribondi, ma l’unzione deve essere praticata “agli infermi, soprattutto a coloro che sono in tale pericolo da sembrare prossimi alla conclusione della vita” (DS 1698). Per quanto riguarda gli effetti si dice: “Questa realtà (res) è la grazia dello Spirito Santo, la cui unzione purifica dai peccati, se ancora rimangono da espiare, e i resti (reliquias) del peccato, solleva e conforta l’anima dell’infermo, eccitando in lui una grande fiducia nella misericordia divina, e da questa sollevato l’infermo più facilmente sopporta le pene e i disagi della malattia, più facilmente resiste alle tentazioni del demonio insidiatore e consegue qualche volta anche la salute del corpo, se è giovevole a quella dell’anima” (DS 1696).

 

Dopo il Concilio di Trento, bisogna attendere il Vaticano II per veder rinnovata la prassi dell’unzione degli infermi.

 

Il Concilio anche su questo punto era stato preceduto dagli studi liturgici che avevano riscoperto diversi elementi dell’antica unzione degli infermi, e aveva pure presente la difficoltà pastorale derivante dal timore diffuso tra i fedeli di ricevere un sacramento che era considerato il sacramento dei morenti.

 

Nella Costituzione sulla liturgia si dice: “L’estrema unzione, che può essere chiamata anche e meglio unzione degli infermi, non è il sacramento di coloro che sono soltanto in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverla si ha certamente già quando il fedele, per malattia o per vecchiaia , incomincia ad essere in pericolo di morte” (SC 73). Nella “<LUmen Gentium” vengono date indicazioni più teologiche: “Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei presbiteri, tutta la chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perchè alleggerisca le loro pene e li salvi (cf. Gc 5, 14-16), anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo (cf. Rm 8, 17; Col 1, 24; 2 Tm 2, 11-12; 1  Pt 4, 13), per contribuire così al bene del popolo di Dio” (n. 11).

 

Paolo VI nella costituzione apostolica sul sacramento dell’unzione degli infermi (1972) decretava la revisione del rito latino: “Il sacramento dell’Unzione degli infermi si conferisce a quelli che sono ammalati con serio pericolo, ungendoli sulla fronte e sulle mani con olio d’oliva o, secondo l’opportunità, con altro olio vegetale, debitamente benedetto, e pronunciando, per una volta soltanto, queste parole: Per questa santa unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo, e, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi”.

 

IL SACRAMENTO DEI MALATI

 

La storia del sacramento degli infermi ci mostra che “in ogni epoca possono determinarsi degli atteggiamenti unilaterali non soltanto a livello di prassi ma anche di dottrina e d’interpretazione teologica, ed ogni periodo storico può far emergere delle istanze di fondo assolutamente autentiche” (MS 10, 635-636).

 

In modo schematico si può dire che fino al sec. VIII l’unzione degli infermi fu considerata prevalentemente come sacramento della guarigione fisica; dall’epoca carolingia al Vaticano II invece vengono messi in primo piano gli effetti spirituali (purificazione dai peccati e preparazione alla morte) per ui diventerà predominante il nome “estrema unzione”. Oggi si ritorna a mettere l’accento sulla unzione degli infermi come sacramento dei malati, cercando tuttavia di raccogliere i vari elementi emersi nella storia in una nuova sintesi.

 

La specificità di questo sacramento va cercata nel suo essere il sacramento dei malati e quindi è intorno al concetto di malattia che deve muoversi la riflessione teologica. Scrive giustamente G. Gozzellino: “Lo specifico del sacramento è di fare della malattia una condizione di costruzione anziché di distruzione dell’uomo; qualora la malattia concluda nella morte, questa azione del sacramento si estende fino ad essa. Dunque lo spazio per l’integrazione della morte esiste, ma solo in una giusta ricomposizione che la collochi alla periferia anziché al centro evitando di fare dell’Unzione un duplicato del Viatico” (in “Il sacramento dei malati”, 78). Lo stesso discorso vale per il rapporto tra la Unzione e il peccato o l’Unzione e la guarigione corporale, in quanto sono da riferirsi sempre alla situazione spirituale del malato.

 

Per questa ragione oggi diversi autori si sforzano di delineare addirittura una “teologia della malattia” (cf. ibidem, 81-85; MS 10, 636-639), per poter meglio individuare gli effetti dell’unzione. La malattia è certamente una situazione di crisi che colpisce il corpo, ma si riflette sullo spirito come esperienza di impotenza e finitudine. essa è strettamente collegata alla morte,  in quanto è inizio di un disordine o disfacimento organico che lede la nostra integrità ed inizia e ci fa presagire il dissolvimento finale.

 

Anche se non è giusto mettere in relazione il singolo stato morboso con un peccato particolare, la fede c’invita a considerare la malattia-morte come tragica conseguenza dell’allontanamento dell’uomo da Dio, creatore della vita, quasi come il marchi del peccato impresso dolorosamente nella carne.

 

Per se la malattia non è uno stato di salvezza, ma un segno del peccato. Se può diventare una via di salvezza è solo perchè la sofferenza e la morte possono diventarlo come esperienza di espropriazione di se stessi, di rinuncia al nostro modo di essere di creature peccatrici, come sottomissione a un giusto, anche se misterioso, decreto divino. Chi però ci rende capaci di percorrere questa via dolorosa di salvezza è il Cristo Redentore che per primo l’ha percorsa offrendosi al Padre per noi, e per noi risuscitando da morte.

 

Di fronte alla malattia l’uomo si trova in uno stato di prova, anche di prova di fede. Scrive bene il Sesboue: “Questo incontro mette il cristiano di fronte alla tentazione. Per resisterle, egli dispone di una libertà che è ferita e malata a sua volta, essendo ancora impacciata dal peso del peccato. Tutta la debolezza che sente dentro di sè diventa complice di questa astenia spirituale. Anche la minaccia di cui è oggetto è in ultima analisi quella della morte perpetua del rifiuto, finchè la sua adesione a Cristo non plachi in lui la rivolta, non gli faccia superare la disperazione che lo opprime e non gli dia la vittoria su questo attacco fisico e spirituale del male. Egli si trova coinvolto in una lotta in cui deve combattere contro il dinamismo della morte e cercare la Vita e la guarigione con chi è Vita per definizione; ma accettando che questa lotta passi attraverso lo strappo della malattia prima del ritorno alla pace e alla salute; ed accettando anche che possa passare, e che un giorno passerà sicuramente, attraverso lo strappo della morte prima della guarigione definitiva della risurrezione” (52-53).

 

Alla luce di queste considerazioni e di quanto ci viene indicato dai documenti del Magistero già citati, possiamo dire che l’unzione degli infermi è il sacramento con cui la Chiesa si rende presente a un suo membro malato, comunicandogli la grazia dello Spirito Santo che lo unisce al Signore sofferente e glorificato, perchè in Cristo possa affrontare, con animo purificato e sollevato nella speranza, la situazione d’infermità sia che questa si risolva nella guarigione, sia che porti alla vita attraverso il passaggio della morte.

 

Siamo convinti che una teologia più soddisfacente di questo sacramento deve ancora essere fatta, tenendo presente che avrà bisogno soprattutto di approfondire il significato della malattia e della morte nel disegno salvifico di Dio e di valutare con serena oggettività tutti i dati emersi nella storia del rito.