IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

                                                

BIBLIOGRAFIA

 

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H. VRGRIMLER, La lotta del cristiano con il peccato, in “Mysterium salutis”, v. 10 (= MS 10).

 

 

NOTA -          “La Civiltà Cattolica” del 7-1-1984 ha pubblicato, in traduzione italiana, il documento La riconciliazione e la penitenza preparato dalla Commissione Teologica Internazionale (CTI) per il Sinodo dei Vescovi del 1983 che doveva appunto trattare tale tema e di cui attendiamo i risultati. Il documento della CTI è stato redatto da una sottocommissione diretta da W. KASPER che aveva collaboratori esegeti e teologi eminenti (Schurmann, Congar, Lehmann, Sesbouè, Caffarra). Terremo presente questo documento ricco ed equilibrato (sigla: CTI).

 

Del sacramento della penitenza tratta più ampiamente la teologia morale e quella pastorale, mentre la teologia liturgica si occupa dell’evoluzione della prassi penitenziale, evoluzione che presenta notevoli e problematiche variazioni. Noi limiteremo il nostro studio agli aspetti più strettamente dogmatici del sacramento, senza naturalmente poter prescindere dai necessari riferimenti e dalle implicazioni con gli altri settori della teologia.

 

Della penitenza si è parlato e scritto molto negli ultimi anni e recentemente ancor più in occasione del Sinodo dei Vescovi.

 

La problematica su questo sacramento si è mostrata particolarmente vivace.

Per vari motivi:

 

1)         crisi e difficoltà della pratica della penitenza nel mondo attuale, sia per i penitenti che per i ministri;

2)         crisi e aspetti discutibili di un certo modo di praticare e amministrare questo sacramento;

3)         Difficoltà create dalla riscoperta dei diversi modi in cui si è praticata riconciliazione nella Chiesa;

4)         difficoltà create dai problemi legati ai vari elementi della penitenza, come la usa dimensione ecclesiale,             l’integrità della confessione, la distinzione tra peccati mortali e peccati veniali.

 

Noi non ci occupiamo dei problemi riguardanti la crisi della pratica del sacramento, anche se dobbiamo tenerne conto. A proposito vorremmo solo notare che non sempre le analisi di questo fatto, presenti in diverse opere citate, sono condotte con molta obiettività.

Ci sembra eccessivo prima di tutto il peso dato alla crisi del sacramento della penitenza nei confronti della crisi che investe ben altri settori della fede e della vita della Chiesa. E’ proprio vero che certi modi di accostarsi o di amministrare questo sacramento siano molto più scadenti o dubbi di quelli usati per gli altri sacramenti? Se molta gente si confessa senza la debita preparazione e coscienza, la stessa gente non di trova nella stessa situazione quando compie altri riti?

 

Non sempre poi si tiene nel debito conto il fatto che sul sacramento della penitenza grava la crisi del senso del peccato nella coscienza dell’uomo e della cultura contemporanea (cf. i vari contributi in “Peccato e riconciliazione: alla ricerca della grandezza” 11-42). La soluzione del problema, senza escludere gli sforzi specifici in campo liturgico-pastorale, va cercata altrove: “il rinnovo dei presupposti antropologici della penitenza deve quindi cominciare col rinnovamento della concezione dell’uomo come persona moralmente e religiosamente responsabile. Occorre dimostrare nuovamente che la possibilità di divenire colpevole vien data insieme con la libertà umana, nel che consiste precisamente la dignità personale dell’uomo” (CTI, 48).

 

Cosa fare di fronte a certe crisi che investono in profondità la stessa concezione cristiana dell’uomo?  Non pensiamo che la soluzione possa mai consistere nel cedimento della fede, quanto piuttosto nella riscoperta di ciò che la fede dona ed esige e nella proclamazione coraggiosa del messaggio evangelico che resta sempre l’unica verità per ogni uomo di ogni tempo.

 

Non è quindi inutile rinnovare l’attenzione alla teologia della penitenza che legata strettamente al mistero del peccato, ha grandi possibilità di illuminare la vita dell’uomo con i suoi drammi e le sue speranze.

 

IL PROBLEMA DEI FONDAMENTI BIBLICI

 

Buona parte delle opere del sacramento della penitenza dedicano un certo spazio alla dottrina biblica del peccato, della misericordia, della riconciliazione, del perdono, della conversione (cf. soprattutto i contributi di B. Maggioni in “La penitenza”; di A. Rolla e S. Cipriani in “La penitenza oggi”). Giustamente la teologia della penitenza deve partire da questi presupposti così presenti in tutta la rivelazione. Scrive l’Anciaux: “Il fatto del peccato è una realtà brutale, presentata dalla Sacra Scrittura come una malattia che si propaga insidiosamente a tutto il mondo. Da ciò proviene una certa impressione penosa alla lettura della Bibbia. Questa “storia santa” è la narrazione della debolezza continua, della malizia monotona, della rivolta disperata dell’uomo. E malgrado tutto è quest’uomo che Dio ama e che chiama alla conversione. Solo la misericordia e la bontà infinita di Dio possono portare la salvezza. Nulla fa apparire più chiaramente l’amore di Dio che la sua pazienza infinita di fronte alla debolezza umana e la sua incrollabile fedeltà alle promesse che trovano la loro realizzazione nell’incarnazione redentrice del Figlio di Dio” (9-10).

 

Il sacramento della penitenza, pur presupponendo tutta la rivelazione del peccato, la misericordia e la conversione, si colloca nel tempo della redenzione realizzata, nel tempo della Nuova Alleanza, della riconciliazione avvenuta nel Cristo, della salvezza e del rinnovamento offerto nel suo nome. C’è una prospettiva nuova, da sottolineare con forza, nel Nuovo Testamento: il monotono rispettarsi delle infedeltà di Israele, la sua inguaribile durezza, vengono spezzati dall’irrompere della grazia della salvezza, dall’evento della Pasqua del Cristo, dal dono dello Spirito, che rinnova il cuore dell’uomo, lo guida con la legge della carità.

 

Gesù chiama alla conversione e alla fede in vista dell’avvento del Regno. Egli comprende la debolezza umana e accoglie i peccatori, ma “suppone sempre che nessuno sia troppo debole per non essere in grado di accettare l’offerta divina della grazia ed imboccare la via nuova, immacolata al cospetto di Dio” (MS 10, 417).

 

In modo particolare è negli scritti di S. Paolo che il cristiano è considerato come un uomo liberato dal potere del peccato e passato nel regno della luce. Per il battesimo “siamo già morti al peccato... il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perchè fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” ((Rom 6, 2.6).

 

Per Giovanni, “chiunque è nato da Dio non commette peccato, perchè un germe divino dimora in lui, e non può peccare perchè è nato da Dio” (1 Giov  3, 9).

 

Questi e altri testi del N.T. non vogliono ceto proclamare l’assoluta impeccabilità del cristiano, tuttavia vanno valutati seriamente, perchè ci parlano della possibilità concreta, effettiva, offerta all’uomo rigenerato dalla grazia di non ricadere schiavo del peccato. Lo stesso N.T. c’invita d’altronde a non assolutizzare le espressioni precedenti.

 

C’è intanto una serie di testi che ci fanno vedere nel cristiano una creatura ancora soggetta a molte debolezze: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Giov 1, 8), perchè “tutti quanto manchiamo in molte cose” (Gc 3,2). Molti brani esortano i cristiani a perseverare ella libertà ricevuta e a camminare secondo lo Spirito (cf. Gal 5, 1-26), a mortificare l’uomo vecchio e a rivestirsi del nuovo (cf. Col 3, 5-14), quindi a portare avanti l’opera di conversione, a cui la rinascita in Cristo li ha introdotti, li sorregge e li impegna.

 

Ma per il nostro argomento interessano in modo particolare quei testi che parlano di peccati gravi di fatto commessi da qualche membro della comunità cristiana e della reazione della Chiesa di fronte a questi casi e dei poteri che Cristo ha dato ai discepoli nei riguardi degli stessi peccati.

 

Si verificano situazioni di peccato: l’episodio di Anania e Saffira (Atti 5, 1-11), dell'incestuoso di Corinto (1 Cor 5, 1-5) o altri casi vengono segnalati in diversi scritti del N.T.

 

Qual è la reazione della Chiesa? Non è facile trovare nei testi biblici una risposta esauriente ai nostri quesiti, anche perchè diversi brani del N. t. che riguardano il nostro problema presentano particolari difficoltà d’interpretazione. Tuttavia alcuni elementi emergono abbastanza chiari: cerchiamo di vederne le indicazioni essenziali.

 

Sul piano pratico vediamo che la Chiesa adotta nei confronti dei cristiani rei di gravi peccati un procedimento di allontanamento dalla comunità che ha la sua preistoria nella scomunica veterotestamentaria e in quella sinanogale (una pratica simile è attestata pure a Qumran). S. Paolo interviene a Corinto: “Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è impudico o avaro o idolatro o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme” (1 Cor 5, 11).

 

Cosa significa tale allontanamento o separazione dalla comunità? Originariamente la prassi si fonda sull’idea che la terra è divisa tra una zona santa (il popolo d’Israele e la sua terra) e una zona sottoposta all’ira divina: chi è allontanato dal popolo è praticamente messo fuori dalla zona di benevolenza e di salvezza. La sinagoga fece proprio e regolò un procedimento di esclusione (nidduj) nei confronti dei membri che avessero peccato con mancanze gravi nei riguardi di Dio, della legge, del prossimo e fossero occasione di scandalo. Lo “scomunicato” doveva vivere in uno stato di penitenza e poteva essere riammesso alla vita della comunità.

 

Qualcosa di simile adottò appunto la Chiesa apostolica. Secondo il Vorgrimler (cf. MS 10, 485-489) il N.T. distingue tra un esclusione semplice e un esclusione accompagnata da maledizione. L’esclusione semplice si ha in caso come quelli che appaiono in 2 Cor 2, 6 e 2 Tess 3, 6ss. e 14-15, in cui un cristiano viene escluso perchè si ravveda e poi viene riammesso. L’esclusione accompagnata da maledizione si ha in At 5 (Anania e Saffira), in At 8 (Simon Mago) e chiaramente in 1 Cor 5, 1-5 in cui l’incestuoso deve essere “dato in balia di satana per la rovina della sua carne, affinchè il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore” (5, 5; cf. pure 1 Tim 1, 19). Commenta il Vorgrimler: “Dare in balia di satana è una formula corrente nel giudaismo contemporaneo e nell’ambiente del tempo; vi soggiace l’idea di una divisione fra le sfere di potenza che conducono alla salvezza o alla sventura.... possiamo dire che l’esclusione dalla comunità, nel suo concetto ultimo (benchè un po’ formalizzato ed astratto), è unica, poichè colui che viene escluso risulta separato dall’attuazione della comunità ecclesiale, dalla chiesa intesa come mezzo di grazia, e quindi consegnato al maligno” (MS 10, 4856-488).

 

La riammissione alla vita della comunità viene senz’altro attestata (cf. 2 Cor 2, 6ss.; 2 Tess 3, 14), anche se i testi non si riferiscono con sicurezza ai casi di esclusione accompagnata da maledizione, per i quali però rimane aperta la via della conversione (cf. At 8, 22; 1 Cor 5,5).

 

Quando nella vita della comunità cristiana si verificano i casi di cui abbiamo parlato, i vangeli non erano stati ancora scritti. E’ normale che la Chiesa nascente abbia “cercato nel tesoro dei ricordi evangelici la luce necessaria per orientare la sua praxsis nei confronti dei suoi membri peccatori” (E. Cothenet, Saintetè de l’èglise et des chrètiens, “Nouvelle Revue Thèologique” 106 (1974), 449-470, 462). Aggiungiamo pure che la stessa prassi penitenziale della comunità può poi avere avuto il suo peso nella redazione degli stessi testi evangelici.

 

Alcuni autori vedono già un accenno al potere dei capi della comunità dell’aggiunta che fa Matteo al racconto della guarigione del paralitico: “Vedendo ciò, le folle ebbero timore e lodavano Dio che aveva dato un tale potere agli uomini” (9, 8).

 

Ma i passi più importanti sono Mt 16, 19; 18,18; Gv 20, 23; tra i quali c’è un evidente legame.

 

In Mt 16,19 e 18,18 ricorre la formula legare-sciogliere prima riferita a Pietro, poi ai discepoli (apostoli o comunità ecclesiale?). Purtroppo non esiste unanimità nell’interpretazione della formula. Le interpretazioni più correnti sono:

a) il potere di legare e sciogliere significa, secondo il linguaggio rabbinico, dichiarare lecita o illecita un’azione che include il potere di esclusione (scomunicare) un membro della comunità o di riammetterlo;

 

b) il Vorgrimler, seguito da altri , propone, anche sulla scia di alcuni Padri, l’interpretazione demonologica: legare significa consegnare un uomo al maligno (= metterlo fuori dalla Chiesa, zona sottratta al potere di Satana, anche se non alla sua influenza); sciogliere, al contrario, significa liberare dall’influsso del maligno (= inserire di nuovo nella comunità colui che gli è stato sottratto) (cf. Ms 10, 466-472); il Cothenet (a.c. 467-469), aderendo a un interpretazione basta sull’uso dei due verbi nel Trgum palestinese, sostiene che i verbi legare-sciogliere significano ritenere il peccato o rimetterlo.

 

Quest'ultima soluzione rende i due testi di Mt più vicini a Gv 20,23: “A chi rimetterete (aphete) i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete (Kratete), saranno ritenuti”. Il concilio di Trento aveva annesso particolare importanza a questo testo giovanneo, dandone pure un’interpretazione dottrinale, riferendolo al potere esercitato dalla Chiesa nel sacramento della penitenza (cf. DS 1703). Da un punto di vista strettamente esegetico, i tentativi d’interpretazione sono vari e nessuno si impone per particolare forza di convinzione. Molti esegeti sono daccordo nel vedervi un potere di rimettere i peccati affidato alla Chiesa, naturalmente legato al dono dello Spirito. Più difficile l’interpretazione di rimettere-ritenere: ci si può vedere un'universalità di poteri sui peccati espressi nei due termini contrapposti; oppure (interpretazione classica o giuridica) il potere di assolvere o non assolvere; oppure, come per i testi di Mt, la potestà della Chiesa di rimettere i peccati o di vincolare il peccatore all'adempimento di certe condizioni che lo portino alla correzione.

 

Al di là delle opinabili soluzioni esegetiche, possiamo dire con certezza, che la Chiesa è incontestabilmente autorizzata a leggere nei brani esaminati la potestà data da Cristo a Pietro e alla comunità ecclesiale di perdonare o di imporre delle condizioni per il perdono dei peccati, con la promessa che verrà ratificato in cielo ciò che viene compiuto sulla terra. Sarà la stessa Chiesa a decidere poi le modalità e le condizioni dell’esercito di tale potere.

 

Un ultimo problema: la Chiesa ha il potere di rimettere qualsiasi peccato? Il problema di fatto è sorto nella Chiesa e qualche testo del N.T. può far nascere dei dubbi. Si tratta in particolare di Mt 12; 31-32 e par.; Eb 6, 4-6; 1 Giov 5, 16, tre testi di difficile interpretazione.

 

In Mt 12, 31-32 e par. si tratta della bestemmia contro lo Spirito che non sarà perdonata. Scrive il Cothenet: “Secondo il linguaggio biblico, lo Spirito è la forza di Dio in azione, l’intervento supremo in vista della salvezza. Chi si rifiuta di riconoscerlo, come lo fece la generazione adultera e peccatrice del deserto, si esclude, per questo stesso fatto, dal perdono della grazia. Il carattere irremissibile di questo peccato non viene dunque, secondo Marco, da Dio stesso, ma dall’uomo” (a.c. 464).

 

Una soluzione simile è proposta per Eb 6, 4-6 in cui si parla dell’apostasia del cristiano che si pone così fuori della possibilità della salvezza a cui aveva avuto accesso.

 

In 1 Gv 5, 16 è difficile comprendere il significato dell’espressione “peccato che conduce alla morte”, che ricorre solo qui nel N.T. Secondo lo stesso Cothenet sarebbe il peccato dei falsi dottori che sono usciti dalla Chiesa: “In tale condizione, essi sfuggono al potere d’intercessione della Chiesa, perchè sono usciti dalla sfera di grazia e di perdono. Inutile dunque pregare per essi” (a.c. 462).

 

Come si vede, in nessuno dei testi citati è chiaramente espresso un limite al potere di perdono della Chiesa. Di fatto la Chiesa non ve l’ha detto. Tali testi piuttosto sottolineano la gravità della condizione del peccatore che si pone al di fuori dello spazio di salvezza offerto definitivamente da Dio.

 

IL PROBLEMA DELLA STORIA DEL DOGMA

 

E’ ormai nota, nelle sue linee essenziali, la storia della disciplina penitenziale della Chiesa: un numero considerevole di ricerche ne hanno man mano messo in luce le fasi successive, gli elementi comuni e costanti e le notevoli variazioni di rito e di prassi. Soprattutto con gli studi del Poschmann e del Rahner si è giunti anche a chiarificare vari punti controversi e a dare alcune soluzioni definitive.

 

Lo studio dettagliato dell’evolversi della prassi penitenziale viene fatto dalla teologia liturgica. Presupponiamo acquisite queste nozioni:

a)         La penitenza ecclesiastica fino al VI secolo presenta queste caratteristiche generali:

- la Chiesa (malgrado alcune opposizioni) concede il perdono per qualsiasi peccato commesso dopo il battesimo, attraverso una complessa prassi penitenziale (paenitentia secunda);

           

- tale prassi penitenziale ha carattere comunitario: non è pubblica la confessione, ma controllato e sostenuto dalla             comunità il cammino penitenziale e comunitaria è la riconciliazione per mezzo del vescovo

 

- prima della riconciliazione il penitente deve sottoporsi a una pratica penmitenziale più o meno lunga e gravosa e dare segni di vero ravvedimento (alcuni interdetti dureranno per tutta la vita, anche dopo la riconciliazione);

 

- la penitenza non è reiterabile (concessa una sola volta nella vita).

b)         A partire dal sec. VI-VII nelle chiesa celtiche e aglo-sassoni si introduce una nuova prassi:

- la penitenza può essere ripetuta tutte le volte che ce n’è bisogno;

- il rito liturgico diventa più privato;

- si impongono opere penitenziali, ancora molto aspre, secondo dei tariffari preparati per i confessori (penitenza tariffata).

 

c) Le innovazioni si introducono e man mano si impongono anche nel continente.

Verso il sec. X diventa pure generale l’uso d’impartire l’assoluzione subito dopo la confessione, rimandando al tempo successivo l’esecuzione delle opere penitenziali. Si stabilisce così una prassi penitenziale che durerà sostanzialmente fino ai nostri giorni.

 

L’evolversi complesso della pratica penitenziale della Chiesa pone diversi interrogativi e dà adito a diverse interpretazioni. Ci limitiamo a fare alcune osservazioni più attinenti al campo dogmatico.

 

Come si spiega il notevole variare della prassi penitenziale? Ci sembra sostanzialmente buona la ragione che ne dà il Poschmann: “Il sacramento della penitenza, associazione della penitenza personale e di una procedura giudiziaria ecclesiastica, è un'istituzione di natura molto complessa. Al di là della penitenza personale, ugualmente indispensabile per il battesimo come atteggiamento cristiano fondamentale, il sacramento richiede la manifestazione del sentimento di penitenza in un opera espiatoria appropriata. Inoltre spetta alla Chiesa determinare con una decisione giudiziaria la misura dell’espiazione e di assolvere dai suoi peccati il penitente sincero. Così il concorso di elementi molto diversi è necessario, e poiché alcuni di essi possono essere più o meno accentuati o, inversamente, posti in secondo piano, l’aspetto dell’insieme è esposto alla possibilità di profondi cambiamenti. La penitenza presenta un aspetto diverso secondo che l’accento è posto sull’opera penitenziale personale o sul ruolo della Chiesa e, per questo riguarda le opere personali. sul sentimento di pentimento o sulle manifestazioni tangibili di penitenza o ancora sulla confessione dei peccati” (12).

 

Per quanto riguarda le costanti e le varianti che s’incontrano nelle varie chiesa dei primi secoli, bisogna prima di tutto sottolineare il fatto che in tutta la Chiesa troviamo la pratica della penitenza canonica con elementi essenziali comuni, quindi siamo di fronte a un fatto di accertata coscienza e tradizione della Chiesa. Le varianti e qualche circostanza o qualche aspetto problematico che troviamo qua e là si spiegano molto beno con il fatto che, non essendoci una disciplina penitenziale normata da un’autorità centrale, i singoli autori, o anche le singole chiesa potevano più facilmente essere soggetti a qualche oscurità.

 

Una delle maggiori varianti è considerata la diversità di giudizio su quali peccati dovevano essere sottoposti alla  penitenza canonica. E’ certo che, basata sostanzialmente sugli elenchi di peccati della Scrittura, le liste di peccati per cui si richiedeva la penitenza ecclesiale sono abbastanza nutrite (cf. Rahner, Vogel ecc.; per l’errore di chi riteneva che solo l’idolatria, l’adulterio e l’omicidio erano di penitenza canonica, cf. Poschmann, 50). Comunque in questa materia non c’ è da aspettarsi l’unanimità, nè si deve negare che ci sia stato col tempo un vero progresso in fatto di valutazione teologica dei peccati.

 

Non fa meraviglia che sino indicati altri mezzi per far penitenza dei propri peccati (preghiera, digiuni, pratiche della vita monastica...): la Chiesa non ha mai negato che ci siano questi mezzi, anzi lo ha insegnato e ne ha reso persini obbligatoria la pratica. Ciò non toglie però che la stesa chiesa abbia esigito la penitenza canonica per i peccati gravi, in qualunque forma tale penitenza sia stata ammessa, quindi anche con la conversio nella vita monastica.

 

Due aspetti della disciplina antica risultano oggi piuttosto sconcertanti per la loro severità: la non reiterabilità della penitenza canonica e la gravità delle pene imposte ai penitenti (soprattutto quelle della perdita dei diritti civili e della proibizione, anche perpetua, dei rapporti coniugali). Perchè concedere una sola volta la possibilità della riconciliazione ecclesiastica? Evidentemente bisogna mettersi nella mentalità delle prime comunità cristiane per le quali il passaggio dalle tenebre alla luce (conversione e battesimo) avveniva in maniera molto seria e quindi la ricaduta in gravi peccati era ritenuta un fatto ecclesiale. Ricordiamo che la Chiesa di quel tempo non ha dovuto difendersi dall’accusa di eccessiva durezza, ma da quella di eccessiva indulgenza (vedi i casi di Tertulliano e di Novaziano). anche il peso delle pene imposte va considerato alla luce della estrema serietà con cui era valutato il peccato e specialmente il peccato del cristiano (non s’infliggono ancora oggi pene severe, anche per tutta la vita, e se ne invocano anche di maggiori per chi commette certi crimini?). Del resto furono proprio questo due aspetto della penitenza antica a renderne difficile e rara la pratica, tanto che la stessa Chiesa accettò di addolcirne il rigore. L’incertezza tra rigore eccessivo ed eccessiva indulgenza si spiega con la situazione perenne della Chiesa che deve trovare un giusto equilibrio “tra il rigore integrista che condanna dal di fuori e la complicità che approva per proiezione del suo desiderio” (A. Manaranche, L’esprit de la loi, Paris 1977, 209).

 

E’ invece oggi positivamente valutato l’aspetto comunitario della penitenza dei primi secoli

 

Va precisato prima di tutto che per “comunitario” non s’intende confessione pubblica o assoluzione generale, ma la partecipazione di tutta la comunità ecclesiale al cammino di ritorno del peccatore e la dimensione pubblica della riconciliazione. In un certo senso mai la penitenza è stata così individuale come in quel periodo, in quanto il singolo penitente veniva qualificato come tale dal suo stato e dai segni e limitazioni  che lo caratterizzavano, come pure veniva seguito e giudicato e aiutato dall’insieme della comunità, anche se poi era il vescovo a riammetterlo alla piena comunione della Chiesa quando ne era ritenuto degno (ancora un giudizio dato dalla Chiesa sul singolo caso individuale). Quindi la rivalutazione della dimensione comunitaia va accolta non come spinta verso la massificazione o il qualunquismo, ma come maggiore partecipazione di tutta la comunità a un rito più ricco e a un cammino più partecipato di penitenza.

 

Altri problemi verranno toccati nella trattazione dei vari elementi del sacramento della riconciliazione.

 

DOTTRINA DEL MAGISTERO

 

Prima della Riforma protestante il Magistero della Chiesa non ha avuto molte occasioni per intervenire sul sacramento della penitenza (cf. Poschmann, 170). Invece i Riformatori attaccarono vari aspetti della dottrina e della prassi penitenziale, per cui il Concilio di Trento fu costretto a intervenire con decisioni che ancora oggi suscitano molte discussioni.

 

Senza entrare nei dettagli di questa vasta problematica, vediamone i punti essenziali (per una maggiore conoscenza cf. MS 10, 504-518; Ramos-Regidor, 201-235; sulle interpretazioni della dottrina tridentina cf. C. Collo, in “La Penitenza”, 448-460).

 

Il citato documento della CTI così riassume i problemi dibattuti nel sec. XVI tra cattolici e riformatori:

a) l’estinzione della penitenza a opera di Gesù Cristo in quanto sacramento destinato dal battesimo;L

 

b) il rapporto della fede giustificante con la contrizione, la confessione, la soddisfazione e l’assoluzione sacramentale;

 

c) l’obbligo di confessare tutti i peccati gravi. Più precisamente si tratta di sapere se una tale confessione è possibile, se è richiesta da Dio o dalla Chiesa, se è in contraddizione con la giustificazione mediante la fede, se procura la pace o il turbamento della coscienza;

 

d) la funzione del confessore. ci si domanda in particolare s il compito del confessore possa essere adeguatamente descritto come annunciatore della promessa incondizionata di remissione dei peccati da parte di Dio in nome di Cristo, o se lo si deve considerare anche come medico, direttore di anime, restauratore dell’ordine della creazione compromesso dal peccato e come giudice” (61).

 

Lo stesso documento presenta in sintesi l’insegnamento del Concilio Tridentino in risposta a questi problemi:

 

A)la confessione sacramentale è per il bene spirituale e per la salvezza dell’uomo, e ciò senza provocare necessariamente turbamento della coscienza; anzi, frutto di questo sacramento è spesso la pace e la gioia della coscienza e della consolazione dell’anima (DS 1674; 1682).

 

B)La confessione è una parte necessaria del sacramento della penitenza; erroneamente si riduce tale sacramento all’annuncio della promessa incondizionata del perdono divino in nome del merito di Cristo (DS 1679; 1706; 1709).

 

C) La confessione dev’essere chiara e inequivoca quando si tratta di peccati mortali; tale obbligo non esiste nel caso in cui è impossibile ricordare i peccati (DS 1682; 1707).

 

D) La connessione completa dei peccati è richiesta dalla volontà salvifica di Dio (iure divino), affinché la Chiesa, mediante i ministri ordinati, possa esercitare la funzione di giudice, di medico, di guida delle anime, di restauratrice dell’ordine della creazione compromesso dal peccato (DS 1679; 1680; 1685; 1692; 1707)” (ibidem).

 

 

LA PENITENZA SACRAMENTO DELLA CHIESA

 

Dopo aver parlato del mistero della riconciliazione nella storia della salvezza e ricordato che la vittoria di Cristo sul peccato risplende nel battesimo e si rende presente nell’eucarestia, l’introduzione al nuovo rito della penitenza, richiamandosi al Concilio Tridentino, dice: “Più ancora, il nostro Salvatore Gesù Cristo, quando conferì ai suoi Apostoli e ai loro successori il potere di rimettere i peccati, istituì nella sua Chiesa il sacramento della Penitenza, perchè i fedeli caduti in peccato dopo il Battesimo riavessero la grazia e si riconciliassero con Dio” (n. 2).

 

La penitenza è dunque nella Chiesa anche un sacramento. Come tale va considerato nel contesto teologico, cristologico ed ecclesiologico in cui vanno collocati tutti i sacramenti, e quindi non possono essere che positivi gli sforzi che fanno molti degli autori citati per ridare alla teologia della riconciliazione un più ampio respiro storico-salvifico.

 

Presupposto l’orizzonte teologico, restringiamo le nostre riflessioni ad alcune problematiche più specifiche della penitenza come è stata ed è praticata nella vita della Chiesa.

 

Il dato di fatto più evidente è che la Chiesa non ha mai considerato il peccato dei suoi membri come una faccenda privata che ognuno doveva sbrigare come credeva opportuno. Se la Chiesa, sacramento di Cristo nel mondo, doveva annunziare ali uomini e realizzare per mezzo dei sacramenti la salvezza che è liberazione dal peccato e novità di vita, era logico che ci fosse pure un sacramento per offrire la riconciliazione a coloro che, già liberati per mezzo delle acque battesimali, si fossero di nuovo sottomessi alla schiavitù della colpa. Ecco perchè fin dai primi secoli vediamo praticarsi la Paenitentia secunda, dopo la prima, quella battesimale. Siamo certi che un cristiano di quei tempi che aveva conosciuto Cristo mediante la testimonianza della Chiesa e alla Chiesa era stato aggregato con il battesimo e nella Chiesa alimentava la sua nuova vita, non potesse neppure pensare di potersi riconciliare con Dio, se si fosse di nuovo allontanato da lui, senza la mediazione della stessa Chiesa.

 

Crediamo sia necessario trovare qui il motivo della necessità di sottoporre al potere sacramentale della Chiesa i peccati del battezzato, più che nelle dimensioni sociali del peccato o nel fatto che con il peccato del cristiano viene ferita anche la Chiesa (cf. LG 11), cose naturalmente vere, ma insufficienti a spiegare da sole la necessità di questo sacramento.

 

Considerare la penitenza canonica come un secondo battesimo era già riconoscere a questa prassi un valore sacramentale. Ma qual è la caratteristica della paenitentia secunda?

 

Per rispondere è necessario partire dalla particolare natura del peccato del cristiano. Il battezzato, come abbiamo visto opra, è una nuova creatura capace, per la grazia che lo riveste, di vivere da figlio di Dio, libero dalla schiavitù del peccato. Le colpe dei cristiani non possono essere considerate come quella dei non battezzati: “Se infatti, dopo aver fuggito la corruzione del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio: Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago” (2 Pt 2, 20-23). Non c’è quindi da meravigliarsi se la penitenza canonica sia un battesimo che, come il primo, presuppone la fede, la conversione ed è dono di grazia, ma è oneroso e aspro (baptismus laboriosus) proprio a causa della particolare gravità del peccato del cristiano.

 

            Ora, la misericordia del Padre offre la riconciliazione anche al cristiano tornato al vomito del peccato, sempre per mezzo di Cristo e per il dono dello Spirito, ma sempre là dove la salvezza si manifesta e si attua, ora, nel corpo di Cristo che è la Chiesa. E’ nella Chiesa appunto che si compie il giudizio di Dio sul peccato del battezzato, è la Chiesa che determina e verifica il cammino d’espiazione e di conversione del penitente, è nell’atto sacramentale della Chiesa che viene concessa la grazia della riconciliazione.

 

Il peccatore cristiano non è lasciato solo, non può anzi essere lasciato solo, perchè appartiene alla comunità di salvezza da cui si è allontanato con il peccato, ma in cui è chiamato ed è aiutato a rientrare per partecipare ancora alla pienezza di vita che vi si attinge. La riconciliazione con la Chiesa (pax cum Ecclesia) diventa allora il segno sacramentale, quindi eficace, della riconciliazione con Dio (cf. Rahner, 100-102).

 

Tutto il processo penitenziale è investito dalla grazia del “sacramento della penitenza”, quindi anche la preparazione dello stesso sacramento, il pentimento che vi predispone e che può già, se è sufficientemente valido, ristabilire il rapporto di amicizia con Dio.

 

Naturalmente il sigillo al processo sacramentale viene impresso dall’assoluzione del vescovo o del sacerdote, poiché il Cristo, come diceva S. Leone Magno, ha dato il potere ai capi della Chiesa “per assegnare a coloro che si confessano gli atti penitenziali, e per ammetterli, dopo che si sino purificati con una salutare penitenza, alla comunione dei sacramenti attraverso la porta della riconciliazione” (Ep. 18, 3).

 

LA PARTE DEL PENITENTE

 

Il Concilio di Trento, seguendo la terminologia e la teologia scolastica, insegna che “la forma del sacramento della penitenza, in cui principalmente è posta la sua efficacia, si trova in quelle parole del ministro: “io ti assolvo ecc....”. La quasi-materia di questo sacramento è costituita dagli atti dello stesso penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione; le quali si dicono parti della penitenza in quanto, per divina istituzione, sono necessarie nel penitente all'integrabilità del sacramento e alla piena e perfetta remissione dei peccati” (DS 1673).

 

Vi sono dunque tre atti del penitente, la contrizione, la confessione, e la soddisfazione (satisfactio) che per S. Tommaso sono “la materia prossima di questo sacramento” (Sum. Th. III, 84,2) e che il Concilio chiama quasi-materia per non andare contro la teoria scotista che fa consistere tutto il sacramento nell’assoluzione. Consideriamo questi tre atti.

 

La contrizione. Lo stesso Tridentino la definisce “il dolore dell’animo e la detestazione del peccato commesso, col proposito di non peccare più per l’avvenire” (DS 1676).

 

Lasciamo alla Teologia morale il compito di studiare più a fondo questa disposizione del penitente, che è stata sempre ritenuta un elemento di grande rilievo per la purificazione del cuore del cristiano (per la dottrina della contrizione nei Padri e nel monachesimo orientale cf. I. Hausherr, Penthos, Roma 1944).

 

Dal punto di vista dogmatico ricordiamo la controversia della scolastica sulla necessità della attritio o della contritio per il sacramento. L’attrizione è il pentimento per il peccato considerato come un male per l’uomo: è un dolore vero e sincero ma non basta a riconciliarci con Dio senza l’assoluzione.

 

La contrizione è invece il pentimento che nasce dall’amore di Dio e quindi dolore di averlo offeso: essa ci fa tornare nell’amicizia con Dio anche prima dell’assoluzione sacramentale.

 

Tra gli scolastici alcuni ritenevano necessaria la contrizione per il sacramento; ma sorgeva il problema: cosa dà allora l’assoluzione se il penitente è già in grazia di Dio? Si dispone che la contrizione trova la forza nel sacramento che sarà ricevuto e che deve esistere già in voto. Altri invece ritengono sufficiente l’attrizione, in quanto, secondo S. Tommaso, la grazia dell’assoluzione fa sì che la disposizione remota (attrizione) si trasformi nel penitente in contrizione (cf. Poschmann, 150-154; Anciaux, 140-149). 

 

In realtà, scrive l’Anciaux, questi problemi sono oggi messi da parte: “Ci si è resi conto che il problema della distinzione tra attrizione e contrizione era falsato da tutta una concezione che considerava il sacramento della penitenza come un supplemento esterno alle deficienza del pentimento. Gli ultimi studi storici hanno messo in rilievo quanto è rincrescevole che sia stato trascurato l’aspetto ecclesiale della penitenza. Senza questo aspetto essenziale non si comprenderà mai la natura del sacramento della penitenza” (148).

 

La confessione. Questa parte del penitente ha assunto tanta importanza da dare il nome allo stesso sacramento, più conosciuto come “confessione” che come “penitenza”.

 

Il Concilio di Trento ha definito la necessità della confessione integra di tutti i peccati mortali di cui si ha conoscenza e che tale necessità è di diritto divino (iure divino). Inoltre ha condannato chi dice che non è lecito confessare i peccati veniali (DS 1707).

 

Perchè la confessione sia integra, secondo lo stesso canone, bisogna accusare “tutti e singoli i peccati mortali... e le circostanze che mutano la gravità del peccato”, quindi il numero e la specie dei peccati e quelle circostanze che mutano la gravità del peccato aggiungendovi qualcosa di particolare (es. rubare il necessario per vivere a un povero o peccare contro la castità da parte di (o con) una persona consacrata commettendo anche un sacrilegio). L’integrità è naturalmente morale, riguarda cioè quei peccati “di cui si ha memoria dopo un debito e diligente esame” (il Concilio respinge così l’obiezione dei protestanti sull’impossibilità di una confessione integra).

 

Il documento della CTI, dopo aver affermato che oggi sussistono le necessità reali a cui rispondono i rimedi del sacramento della penitenza, ribadisce: “Data la realtà di queste esigenze umane e spirituali, dato pure che nel sacramento della penitenza Dio ci dà di che soddisfarvi, la confessione dei peccati gravi che il peccatore ricorda dopo un attento esame di coscienza, in virtù della volontà salvifica di Dio (iure divino), deve conservare il suo posto, indispensabile per il conseguimento dell’assoluzione. Diversamente, la Chiesa non può adempiere ai compiti che Gesù Cristo suo Signore le assegna nello Spirito Santo (iure divino). Si tratta dei servizi di medico, di guida della anime, di promotore della giustizia e dell’amore nella vita personale e sociale, di araldo che proclama la promessa divina di perdono e di pace in un mondo spesso dominato dal peccato e dall’odio; infine, di giudice dell'autenticità della conversione a Dio e alla Chiesa” (62).

 

Nei primi secoli troviamo la confessione come accusa dei peccati e lode di Dio: “Confessa la tua iniquità, confessa la grazia di Dio, accusa te stesso e glorifica lui” (S. Agostino, En. in Ps. 66,6). Questa confessio o exomologesis avviene anche al di fuori della penitenza canonica, mentre in questa non è necessaria se i peccati non sono notori, ma se non lo sono è evidente che il penitente deve aprire al vescovo la sua conoscenza per essere ammesso alla penitenza. Conia penitenza “tariffata” la confessione dettagliata di tutti i peccati è sentita come una necessità per permettere al confessore di determinare gli atti penitenziali corrispondenti. Più tardi lo stesso fatto di confessare i peccati viene sempre più considerato come atto di umiliazione che ha in se stesso un valore penitenziale, espiatorio, comunque sempre come condizione necessaria perchè la Chiesa possa esercitare il suo potere di legare e di sciogliere.

 

Il brano della CTI ora citato sottolinea giustamente che la confessione permette alla Chiesa di adempiere il servizio di medico, di guida delle anime ecc. Cosa avverrebbe (e cosa di fatto avviene) se il peccatore fosse lasciato solo con il suo peccato, giudice molto sospetto e spesso inesperto e facilmente illuso della sua colpevolezza? Perchè non sentire in quest’obbligo della confessione una disposizione della misericordia di Dio che ci spinge a cercare nell’aiuto fraterno della Chiesa un mezzo validissimo di conversione?

 

Non si sentiamo neppure di sottovalutare quell’aspetto che molti con un certo disprezzo chiamano consolatorio (il sentirsi liberati da un peso della coscienza), a meno che la confessione non si riduca solo a questo. Il Signore che ha fatto il cuore dell’uomo sa anche scegliere i mezzi per alleviare le sue angosce.

 

Il Concilio di Trento difende pure la pratica della confessione dei peccati veniali, pratica che man mano si è affermata nell’esperienza della Chiesa come ottimo mezzo di perfezione. A parte il fatto che a volte è difficile dire che i peccati che confessiamo siano gravi o leggeri, non si vede perchè non possa essere confortato dalla grazia di questo sacramento il cammino di conversione che ogni cristiano, anche se è un santo, è chiamato quotidianamente a percorrere. Questa pratica “serve ad incarnare nel gesto ecclesiale la conversione interna del peccatore; rende più reale il suo sforzo di conversione e la lotta per correggere la propria errata gerarchia dei valori e le deviazioni dell’opzione fondamentale di cui i peccati veniali sono un’oggettivazione; aiuta a prendere sul serio la lotta contro il peccato, in tutte le sue dimensioni; infine, fa sì che il suo sforzo di conversione s’incontri con la parola efficace del perdono ed egli sia nuovamente inserito nel dinamismo rinnovatore e liberatore del Mistero pasquale” (Ramos-Regidor, 298).

 

Oltre alla confessione dei peccati veniali, è ritenuta utile anche la ripetizione della confessione dei peccati già confessati. L’Anciaux ne dà la ragione: “Mediante una confessione sincera il peccatore ha recuperato la grazia e la carità. Tuttavia egli non ha necessariamente nè generalmente raggiunto un fervore di carità tale che distrugga tutte le conseguenze del peccato dell’uomo... L’unione effettiva a Dio mediante una liberazione crescente di fronte al peccato resta un obiettivo importante. Ecco perchè la sottomissione reiterata alla penitenza ecclesiale è vivamente raccomandata al cristiano che ha commesso dei peccati mortali” (160).

 

La satisfactio. Il Vorgrimler precisa così il concetto di soddisfazione come è stato sentito nella Chiesa: “Il concetto di “satisfactio” fu introdotto nella prassi penitenziale da Tertulliano e da Cipriano che lo segue. Per quanto riguarda invece il contenuto, questa soddisfazione è sempre implicita nella prova attraverso la quale il peccatore deve dimostrare attivamente una revisione del proprio modo di vivere. Nell’uso linguistico attuale della Chiesa, la soddisfazione è riferita in primo luogo (benché non esclusivamente) all’estinzione delle prove temporali per i peccati, e consisterebbe quindi nell’accettazione delle conseguenze che le colpe hanno determinato. Secondo la dottrina della Chiesa, esiste una reale possibilità di prestare una soddisfazione per le pene del peccato (DS 1689ss.)... Sorge così il problema delle pene per i peccati. La dottrina tradizionale della Chiesa la interpreta come un male fisico, come delle pene che stanno in un certo rapporto con una colpa determinata dell’uomo ma che vengono inflitte al colpevole da Dio stesso. Nella dottrina del peccato originale, sacramento della penitenza, indulgenze e purgatorio, si è evoluta l’idea secondo la quale la colpa vera e propria (reatus culpae) dev’essere distinta dalla pena eterna per il peccato (dalla dannazione eterna) e dalle diverse pene temporali per i peccati (reatus poenae) e che la cancellazione della colpa e della pena eterna non implica affatto, di per se stessa, la cancellazione di tutte le pene temporali” (MS 10, 536).

 

I vari elementi emersi nella teologia classica vanno valutati attentamente, con tutte le loro implicazioni, piuttosto che essere messi frettolosamente da parte. Semmai c’è da rivederli alla luce di una teologia più ancorata ai grandi temi della Rivelazione.

 

Sappiamo d’altronde quale grande spazio hanno assunto nella penitenza della Chiesa antica le opere penitenziali. Oggi non si ama considerarle come opere di carattere penale, ma piuttosto medicinale. Forse i due aspetti non vanno troppo separati

 

Ci sembrano buone, a proposito della soddisfazione sacramentale, le osservazioni dell’Anciaux: “La penitenza ecclesiale è giudizio e perdono; è condanna ed espiazione. Mediante questo giudizio e questa condanna il peccatore è condotto alla riconciliazione. La penitenza ecclesiale è così assoluzione e liberazione, restituzione dell'amicizia con Dio mediante la restaurazione della comunione in Cristo. Ma questa riconciliazione con Dio nel Cristo è il risultato dell’actio poenitentiae, di questa espiazione imposta e consacrata alla Chiesa... Certo la penitenza, come ogni sacramento, è sorgente di grazia e atto di amore di Dio. Ma questo sacramento è sorgente di grazia in quanto “penitenza”, esso restituisce l’amore per mezzo di una “soddisfazione”, che è salutare perchè espiazione in unione alla passione di Cristo” (102-103).

 

LE INDULGENZE

 

Molti autori uniscono alla tradizione del sacramento della penitenza quella delle indulgenze. In realtà la dottrina delle indulgenze è radicata nella prassi penitenziale della Chiesa e va studiata in questo ambito.

 

Sappiamo che Lutero iniziò la sua protesta contro la Chiesa proprio con l’attacco della dottrina delle indulgenze, attacco in parte giustificato dagli abusi che in realtà si erano introdotti a questo riguardo. Il Concilio Tridentino dichiarò che il potere di concedere le indulgenze è stato conferito alla Chiesa da Cristo e che il loro uso deve essere considerato molto salutare per il popolo cristiano (DS 1835).

 

Il nuovo Codice di Diritto Canonico dice: “L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritariamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi” (c. 992).

 

Le indulgenze più antiche vengono attestate in Francia nella prima metà del sec. XI, ma le loro radici affondano nei secoli precedenti, nel ruolo svolto dalla comunità ecclesiale a favore del penitente (per la storia delle indulgenze cf. Poschmann, 184-201; Anciaux, 220-231).

 

Paolo VI ne rinnovava la prassi, facendo precedere le nuove norme dalla Costituzione Apostolica “Indulgentiarum Doctrina” (1967). In essa tra l’altro si dichiara: “Nell’indulgenza la Chiesa, facendo uso del suo potere di ministra della redenzione di Cristo Signore, non soltanto prega, ma con intervento autoritario dispensa al fedele debitamente disposto il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi in ordine alla remissione della pena temporale. Il fine che l’Autorità ecclesiastica si propone nella elargizione delle indulgenze è non solo di aiutare i fedeli a scontare le pene del peccato, ma anche di spingere gli stessi a compire opere di pietà, di penitenza e di carità, specialmente quelle che giovano all’incremento della fede e del bene comune” (n. 8; in nota vengono citati due brani della Epistola dello stesso Paolo VI “Sacrosancta Portiunculae”).

 

(Per una sintesi della dottrina delle indulgenze cf. MS 10, 541-546).