La cultura della notte

sfida le nostre strutture educative

Mons. Domenico Sigalini, responsabile del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile

 

Sono quattro o cinque decenni che i giovani si costruiscono loro luoghi, si defilano dalla realtà adulta, inventano una sorta di società parallela, sicuramente non autosufficiente, ma del tutto impermeabile a presenze non gradite di adulti, si costituiscono come una questione o almeno una sottocultura. Qui, anziché nei luoghi istituzionali a ciò dedicati, come la scuola, la parrocchia, la famiglia, i giovani pongono la forza e l’emotività necessarie per andare avanti nella vita e per decidere che farne. Ce ne potremmo scandalizzare, ma è così. Per le relazioni affettive, per la decisione degli studi da compiere, per i rapporti sociali, per la appartenenza alla Chiesa, per la dimensione religiosa spesso influiscono di più questi mondi vitali, che il giovane si crea, che i nostri luoghi istituzionali. Allora buttiamo a mare le istituzioni, la famiglia, la scuola, la parrocchia, l’associazione, l’oratorio? Neanche per sogno, anzi è proprio da qui che deve partire una capacità di ridefinire anche lo stesso oratorio.

 

Oratorio: ponte educativo tra la strada e la chiesa

Tra i ponti educativi più interessanti e che fanno parte della tradizione educativa della comunità cristiana c’è in molte diocesi e presso varie congregazioni religiose, l’oratorio, il patronato, il centro giovanile. È il luogo per eccellenza dove può crescere quel tessuto di relazioni, a metà tra la strada e la chiesa, necessario per ogni giovane che non vuol vivere solo col pilota automatico e che si domanda il significato del suo vivere e del suo morire. Importante è mantenerlo in questa prospettiva e non farlo “decadere” o da una parte o dall’altra.

Gli oratori sono sempre stati grandi spazi in cui la vita quotidiana è apprezzata, in cui si può stare tra amici a socializzare, offrirsi, sperimentare relazioni, vivere hobbies, far crescere amicizia, lasciarsi coinvolgere da progetti di generosità, tentare di impostare esperienze affettive, qualificarsi religiosamente con la catechesi...Un oratorio o è una piazza della vita quotidiana o non è più oratorio.

Quali sono le proposte?

Molti oratori non sono più nessun crocevia: sono per alcuni solo gli spazi di attesa per entrare nel gruppo o in associazione o per avviarsi al luogo di catechesi, mentre per altri sono i luoghi di qualche gara di calcio o per lo sviluppo del campionato. Come si può realizzare anche su questa fetta di vita quanto dicono i vescovi: “L’ascolto e la compagnia impegnano in una duplice direzione: da una parte chiedono di superare i confini abituali dell’azione pastorale, per esplorare i luoghi, anche i più impensati, dove i giovani vivono, si ritrovano, danno espressione alla propria originalità, dicono le loro attese e formulano i loro sogni; dall’altra esigono uno sforzo di personalizzazione che faccia uscire ogni giovane dall’anonimato delle masse e lo faccia sentire persona ascoltata e accolta per se stessa, come un valore irripetibile”? Queste e altre domande occorre con chiarezza proporci.

 Quali sono le proposte?

 1. Consolidare l’esistente, fare bene quello che sempre abbiamo fatto, ma non nel senso che stiamo tranquilli sulle cose di sempre per dirci che avevamo ragione. L’accento va posto sul consolidare e sul fare bene. Devo sapere che il giovane che ho davanti è colui che vive in quegli spazi come ho detto sopra, colui che vive anche la notte, colui che anche lì deve essere cristiano e missionario. Devo allora qualificare maggiormente l’educazione, l’incontro, il tratto, l’accoglienza la libertà, la coscienza, le motivazioni, l’apertura, la creatività, la responsabilità, la conduzione in proprio di esperienze di vita e di fede, la sua vocazione, la spiritualità laicale di impegno ecclesiale e civile. Questo esige che l’oratorio di tutti i giorni, quello in cui viviamo oggi, si dia una mossa, si riempia di proposte forti, sia significativo per chi ci abita, non mi crei quelle facce da bulldog scontente della vita, della serie: “che scalogna! sono cattolico, oggi è domenica e devo anche andare a messa”!

 Studiare con passione e distacco la cultura della notte, collegarla alla realtà del giorno. Sappiamo tutti che i giovani spesso riempiono di sballo la notte perché vivono una giornata che non li interpreta o che li frustra, che non riescono a dialogare con l’adulto per mancanza di linguaggi condivisi e ancor più di ascolto reciproco. La destrutturazione delle appartenenze, la cancellazione dei confini tra il bene e il male, l’immersione nell’anonimato, la voglia di uscire dal controllo, la sincerità delle relazioni, la predisposizione ad approfondire le ragioni della vita in un dialogo franco (quanti giovani usano la notte per la direzione spirituale!): sono tutti elementi da comporre in una lettura a vari livelli.

Pensare l’oratorio per progetti, non per muri o spazi o adempimenti da routine. I progetti devono essere in grado di interessare il mondo giovanile, di mettersi sulla loro lunghezza d’onda, sulla ricerca di comunicazione, di stare assieme, di gestire la propria corporeità, i propri gusti, la propria domanda di religiosità al di fuori degli schemi già preconfezionati. Occorre pensare una sorta di progetto “fine settimana” con suoi metodi, con suoi animatori, con suoi programmi, con una sua capacità di creare interessi, mediazioni, relazioni, spazi di incontro, momenti espressivi qualificati.

4. Domandarsi seriamente chi è il soggetto interessato a questo progetto. Il prete da solo? il gruppetto degli educatori che già fanno catechesi, vita associativa, vita di gruppo? la parrocchia? una associazione? Il soggetto è sicuramente una comunità fatta di famiglie, di adulti e giovani, di responsabili della società civile, e un insieme di parrocchie, e una zona pastorale o una unità pastorale, un mettere assieme le energie e offrire esperienza di comunione, contro la frammentazione.

Allora, e solo allora, potremo mettere a disposizione quel fior di strutture che la gente ha donato con tanti sacrifici alla comunità cristiana per i suoi giovani e che spesso sono abbandonati, perché si credeva di aver già fatto tutto, quando sono stati costruiti.