I cervelli dello sterminio

Dai documenti della cosiddetta «Aktion T4» emerge il legame tra alcuni neuroscienziati e il progetto nazista di «purificazione». Tra i complici del regime anche il neurologo Julius Hallervorden, colpevole di aver eseguito i suoi esperimenti sui resti delle vittime. E ora si pensa di mutare nome alla sindrome infantile da lui scoperta

di Andrea Lavazza (Avvenire)

 

Sono i documenti dell'orrore. Trentamila cartelle cliniche della Aktion T4, il programma di eutanasia per i malati mentali del regime nazista, ritrovate negli archivi della ex Ddr all'inizio degli anni Novanta. Nella asetticità del linguaggio medico testimoniano la prima azione hitleriana di annientamento di massa. Alla quale parteciparono, esecutori entusiasti per «il progresso della scienza», decine di illustri ricercatori (tra cui lo psichiatria di Heidelberg Karl Schneider, suicida nel 1946), mentre molti altri non protestarono né rifiutarono di avvantaggiarsi della mostruosità per i propri studi.
Sarebbe questo il caso di Julius Hallervorden (1882-1966), uno dei pionieri della neurologia infantile, il cui nome è legato alla malattia degenerativa che individuò nel 1922 insieme a un collega, la sindrome di Hallervorden-Spatz. Perché non si perpetui la memoria positiva di uno scienziato che, in seguito, non avrebbe esitato a servirsi dei cervelli dei pazienti «gasati», è stato proposto di cancellare l'eponimo da ogni testo e memoria e di ribattezzare la patologia come «malattia di Martha e Alma», dal nome delle due sorelline sui cui cervelli fu eseguito il primo studio autoptico. A sostenere l'iniziativa (in accordo con il canadese Michael Shevell) è Francesco Monaco, direttore della Clinica neurologica dell'università del Piemonte Orientale. Da tempo egli indaga le degenerazioni delle «neuroscienze del Terzo Reich» affinché mai si ripeta un tale inumano tralignamento dai doveri di chi avrebbe il compito di curare e fare ricerca per il bene comune.
Nella sua recente relazione al XXV Congresso italiano di Neurologia, Monaco ha ricostruito la storia di quell'abisso, a suo avviso ancora «logicamente e razionalmente incomprensibile». La Germania degli anni Trenta era il faro della cultura europea; la psichiatria di Weimar introdusse trattamenti d'avanguardia ripresi nel dopoguerra. Tuttavia, l'idea di igiene razziale aveva già attecchito negli ambienti accademici su influenza del darwinismo sociale teorizzato da Alfred Poetz alla fine dell'800. «All'interno di questa cornice teorica i malati e i deboli mentali (non meglio definiti) - riferisce Monaco - erano visti in termini puramente economici come un peso nazionale quantificabile». Un fisiologo (Alfred Hoche) e un giurista (Rudolph Binding) nel 1920 pubblicarono un libro nel quale sostenevano che il diritto alla vita non esiste di per sé, ma deve essere guadagnato e giustificato: si introduceva così il concetto di lebensunwertes Leben, vita indegna di vita, che starà alla base dell'eutanasia di Stato.
Nel 1933 fu varata la Legge per la prevenzione della prole geneticamente malata, in forza della quale, dietro giudizio di «corti di salute» costituite da noti medici cui i dottori di famiglia dovevano segnalare i casi, furono sterilizzate senza consenso circa 400mila persone.
Alla fine del 1939, il Führer emanò un decreto «per garantire morte pietosa ai malati considerati inguaribili». Furono quindi distribuiti questionari in cui registrare i bambini con deformità congenite o deficit psichici. In istituti attrezzati per lo sterminio, tra cui l'ospedale di Brandenburg-Görden, i piccoli venivano lasciati morire di fame, di freddo, oppure uccisi con il cianuro o con la morfina. Ai familiari erano comunicate false cause di decesso con lettere standardizzate. Le vittime superarono le cinquemila. L'estensione del programma agli adulti venne poi autorizzata verbalmente dallo stesso Hitler. Camere a gas con docce furono installate in sei centri. Le persone «eliminate» (i cui dati furono meticolosamente registrati) sino all'agosto 1941, quando il programma si interruppe, furono 70.273.
Alla sospensione contribuì la protesta diffusa, guidata dal mondo cristiano: in particolare il vescovo di Münster, Clemens von Galen, si espresse pubblicamente contro l'eutanasia e il testo a stampa della sua omelia cominciò presto a circolare. Ma la strage di pazienti psichiatrici, in Germania e nei Paesi occupati, non si fermò: secondo lo storico Hans-Walter Schmuhl, gli uccisi tra il '39 e il '45 raggiunsero la spaventosa cifra di 260mila.
La partecipazione attiva, la complicità o l'omissione di denuncia da parte dei neurologi non era dovuta solo all'adesione o all'acquiescenza ideologica al regime e al suo obiettivo di «purificazione» razziale. Terapia, ricerca di base, eugenetica ed eutanasia erano elementi di una visione complessiva: «L'uccisione dei malati - scrive Schmuhl - dischiuse possibilità del tutto nuove ai ricercatori, che poterono esaminare in modo approfondito i pazienti scelti per essere soppressi, e poi sottoporne il cervello a dissezione e a esami patologici». Lo scopo era debellare le malattie che rendono l'uomo imperfetto e dipendente.
Grazie alle indagini e agli interrogatori condotti dopo la guerra dal maggiore Usa e neuropsichiatria Leo Alexander, si deve ritenere che anche Hallervorden sapesse: «Dissi che, se proprio dovevano uccidere tutta quella gente, almeno si prelevassero i cervelli perché quel materiale venisse utilizzato - si legge nei verbali -; io diedi fissativo, contenitori, scatole e istruzioni; da dove e come arrivavano i reperti non era affar mio». Chi si fosse rifiutato di partecipare all'Aktion T4 non rischiava nulla, sottolinea Monaco. Ha detto Maike Rotzoll, che dirige l'analisi dei 30mila referti della vergogna: «Quando non viene fissato alcun limite esterno, una volta o l'altra tutto diventa possibile».