Il "caso Galilei"

tratto da: Roberto Tomossi, Dio e la scienza moderna, Leonardo Mondadori, 1999

Non rifaremo qui la cronaca minuziosa dello scontro bislacco e a tratti simile a un dramma satiresco che contrappose lo scienziato pisano alla Santa Inquisizione fino alla sua definitiva condanna con abiura; ci limiteremo invece agli avvenimenti principali e alle questioni di merito filosofico‑teologico, rimandando il lettore interessato ai dettagli a uno dei tanti testi scritti sull'argomento riportati nella nostra bibliografia ragionata.

Come si ricorderà, Galilei manifesta per la prima volta la sua adesione al copernicanesimo nel 1597 con una lettera indirizzata a Keplero, che peraltro seguiva di pochi mesi un'altra missiva all'amico Jacopo Mazzoni in cui la teoria eliocentrica veniva definita «assai più probabile dell'altra di Aristotele e Tolomeo». Tuttavia a tali ancor prudenti prese di posizione a favore di Copernico non era seguito nessun pronunciamento pubblico almeno fino al dicembre del 1610 allorché, dopo la stampa del Sidereus Nuncius, lo scienziato pisano scrive a padre Clavius per argomentare come le fasi di Venere si giustifichino soltanto con l'eliocentrismo. Infine, nel gennaio del 1611, in una lettera a Giuliano de' Medici sullo stesso tema, afferma perentoriamente:

Haveranno dunque il Sig. Keplero et gli altri Copernicani da gloriarsi di havere creduto et filosofato bene.

Con le sue scoperte telescopiche, dunque, il nostro scienziato abbandona ogni tergiversazione e ogni cautela per fare aperta professione di fede copernicana. E così deve essere accaduto, sempre nel 1611, anche nei colloqui con i gesuiti del Collegio Romano e con altri alti prelati della curia pontificia in occasione del suo trionfale viaggio a Roma. Qui trovano probabilmente la loro origine storica anche gli equivoci, le incomprensioni e le ostinazioni da una parte e dall'altra che condurranno al triste epilogo della condanna da parte della Chiesa prima del sistema copernicano (1616) e poi di Galileo (1633).

Nel corso di questo esaltante momento della sua vita, le scienziato pisano da un lato impegna pubblicamente la sua reputazione ‑ cosa a cui teneva moltissimo, forse troppo ‑ a sostegno del copernicanesimo e dall'altro rientra probabilmente dalla Città eterna con la convinzione che all'interno del mondo ecclesiastico non vi sia una netta preclusione teologica nei confronti della tesi eliocentrica, visto che nessuno degli autorevoli personaggi incontrati (compreso il sommo pontefice Paolo V, dal quale era stato ricevuto con grande onore) aveva esternato una palese contrarietà alle sue idee. In realtà, però, se Clavius e gli altri astronomi romani non avevano contestato apertamente le sue teorie filocopernicane, non avevano neppure manifestato un'adesione alla fondatezza scientifica del sistema copernicano, che inoltre a quell'epoca non si poteva ritenere affatto dimostrato. Le fasi di Venere, la natura terrestre della Luna e tutte le altre «cose mai viste» contenute nel Sidereus Nuncius, non provavano infatti a sufficienza la validità del sistema di Copernico e non avrebbero mai potuto farlo, dal momento che quest'ultimo, prevedendo ancora alcuni epicicli come quello tolemaico, non corrispondeva davvero in tutto e per tutto alla realtà del cosmo. I fenomeni scoperti da Galilei, del resto, si potevano pure spiegare ricorrendo al cosiddetto terzo modello cosmologico o ticonico formulato da Tycho Brahe, che doveva piacere particolarmente al Collegio Romano. Con esso, infatti, la Terra restava al centro della sfera stellare e intorno a questa si muovevano sulle vecchie orbite tolemaiche soltanto la Luna e il Sole, mentre tutti gli altri pianeti (dunque anche Venere) ruotavano intorno all'astro solare sugli immancabili epicicli e quindi indirettamente attorno al globo terrestre. Se dal punto di vista cosmologico, in assenza della prova decisiva del calcolo esatto della parallasse trigonometrica annua delle stelle (effettuato solamente nel 1837 dall'astronomo Federico Guglielmo Bessel), il confronto tra sistema copernicano e sistema ticonico assomigliava molto a quello della metà del XX secolo, allorché si fronteggiarono due modelli esplicativi dell'origine del cosmo ‑ la teoria dello stato stazionario e quella del Big Bang ‑ di apparente uguale validità, sotto il profilo teologico le cose non andavano molto meglio, tanto da sembrare sorprendente che Galileo abbia potuto non accorgersene. In quest'epoca di Controriforma, la sensibilità della Chiesa verso possibili controversie che mettessero in discussione l'interpretazione tradizionale delle Sacre Scritture era assai elevata, fino a rappresentare un vero e proprio nervo scoperto. Troppi uomini di cultura portavano i segni della Santa Inquisizione sulla propria carne perché il nostro scienziato non si rendesse conto delle difficoltà e dei pericoli a cui andava incontro. Eppure tutti i suoi comportamenti e tutti i suoi pronunciamenti, compreso quello davanti al tribunale di non aver compreso di commettere un "errore" contro la dottrina cattolica, lasciano pensare che egli sperasse veramente di far pronunciare la Chiesa a favore del copernicanesimo.

Torneremo in seguito sulle motivazioni dell'agire di Galileo e sulle possibili ragioni di questo incredibile misunderstanding. Prima dobbiamo riferire del passo che gli fu veramente fatale: il tentativo di giustificare teologicamente il rapporto tra conoscenza scientifica e fede cristiana.

Le cene in casa del granduca di Toscana non dovevano portare una gran fortuna allo scienziato pisano, perché anche in questa occasione (siamo nel dicembre del 1613) tutto nacque da una conversazione alla tavola di Cosimo II de' Medici. Non fu tuttavia Galilei a partecipare personalmente al convito, bensì il suo allievo più fedele, un professore all'università di Pisa, padre Benedetto Castelli (1578‑1643). Tema della discussione non risultava tanto la fondatezza scientifica del sistema copernicano, quanto la sua conformità al dettato della Bibbia e alla tradizione dei Santi Padri della Chiesa, conformità messa apertamente in dubbio dal professore pisano Cosimo Boscaglia. Tra i presenti visibilmente più preoccupati di una tale eventualità si collocava, malauguratamente, anche la granduchessa Madama Cristina di Lorena, madre di Cosimo II e donna molto devota, ma soprattutto di sicura influenza nella corte toscana e tra i potenti d'Europa.

Quando il Castelli riferì i fatti al suo maestro, quest'ultimo, invece di accorgersi che si trattava della solita imboscata imbastita dai suoi nemici pisani, si preoccupò grandemente per il suo prestigio e per il suo futuro presso il granduca, che a sua volta non desiderava certamente trovarsi nel mezzo di una controversia religiosa con la Curia romana proteggendo uno scienziato in odore di disobbedienza alle Sacre Scritture. Senza pensarci troppo su, il 21 dicembre 1613 Galileo rispose all'amico Castelli con una lettera, in cui entrava nel vivo delle questioni di esegesi biblica e raccomandava imprudentemente al suo discepolo di dare a quel suo scritto ampia diffusione.

Come era prevedibile, il testo della missiva scatenò i detrattori dello scienziato che evidentemente non aspettavano altro che l'occasione di screditarlo sul terreno religioso, vista l'impossibilità di farlo sul quello della scienza. In breve molti ecclesiastici conservatori lo attaccarono anche dai pulpiti e piovvero le prime denunce al Sant'Uffizio. Ciononostante il nostro scienziato non demorse e scrisse altre tre lettere, definite poi insieme alla prima dagli storici Lettere copernicane, l'ultima delle quali inviata direttamente alla granduchessa Cristina di Lorena.

La tesi principale sostenuta da Galilei in queste lettere (in particolare quelle al Castelli e a Cristina di Lorena) non era nemmeno questa volta del tutto nuova e si rifaceva nientemeno che al pensiero di uno dei maggiori teologi della Chiesa, sant'Agostino di Ippona (354‑430); il modo e il momento in cui essa veniva espressa risultavano però tremendamente dirompenti. Su probabile suggerimento di un suo estimatore, il filosofo Tommaso Campanella (1568‑1639), Galileo riproponeva l'interpretazione non letterale della Bibbia nei passi in cui non tratta di questioni strettamente di fede e spiegava ancora che tanto la scienza quanto la divina Rivelazione provengono da Dio, quindi sono due fonti dell'unica Verità. Ognuna di esse deve essere pertanto sovrana nel proprio ambito: la scienza nello studio della natura, la teologia nella dottrina della salvezza. Scrive Galilei nella "Lettera a Madama Cristina di Lorena":

Mi pare che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma da sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Sacra Scrittura e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa [la natura] come esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accommodarsi all'intendimento universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli; pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura; poi che [...] si scuopre Iddio negli effetti della natura che ne' sacri detti delle Scritture.

 

Insomma, in scarne ed efficaci parole: l'intenzione dello Spirito Santo [è di] insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo.

Tutto sembrava dunque molto chiaro e lineare, o almeno così deve aver creduto il nostro scienziato. Già Agostino, infatti, aveva messo in guardia da un'interpretazione troppo letterale della Bibbia laddove essa si riferisce a eventi naturali, poiché sia la verità di ragione sia la verità rivelata provengono dalla divina illuminazione. Inoltre la conoscenza esatta della natura non può mai contraddire il dogma rivelato, mentre perseverare in un errore di ragione facendosi scudo delle Scritture ha effetti sempre negativi per la verità: «Christianos enim facere volehat non mathematicos». D'altronde lo stesso Tommaso d'Aquino, in quel tempo il eologo cristiano per eccellenza, aveva evidenziato i rischi insiti nel ricercare nella Bibbia conferme a ogni costo dei sistemi cosmologici, sistemi da lui peraltro ritenuti tutti ipotetici (suppositiones), anche quello aristotelico‑tolemaico a cui egli aderiva. E in fondo Galileo, che desiderava essere un cattolico ortodosso, deve avere ancora pensato che la distinzione tra verità scientifiche (empiriche e razionali) e verità rivelate non è molto distante dagli insegnamenti tomistici secondo cui la ragione e la fede non possono contraddirsi, poiché sono entrambe due vie alla verità, la quale invece è sempre e necessariamente una sola. Ma, in realtà, le cose a quel tempo stavano molto diversamente.

Innanzi tutto c'è da rilevare che tra la posizione epistemologica di Tommaso e quella di Galilei sussisteva una differenza non da poco: mentre il primo, qualora verità di ragione e verità di fede si fossero trovate su posizioni assolutamente inconciliabili, continuava a riconoscere il primato della teologia, il secondo pensava a una completa autonomia della ricerca scientifica, a una rigorosa "incommensurabilità" tra scienza e fede, tanto che rispetto al proprio oggetto la conoscenza della natura non doveva ammettere ingerenza di sorta da parte dei teologi, quindi nemmeno alcuna forma di subordinazione. Qualora le Scritture fossero risultate difformi dalle conoscenze scientifiche, occorreva dunque rivedere 1'esegesi delle prime, non mettere in discussione la verità delle seconde. Scrive infatti a Benedetto Castelli:

I crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dello stesso Spirito Santo. Ma quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto abbia voluto [...] darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo.

In secondo luogo, poi, le idee dello scienziato pisano non soltanto invadevano un campo non suo (quello dei teologi cristiani), ma prospettavano pericolosamente proprio quanto il Concilio di Trento aveva cercato di debellare: la messa in discussione del magistero assoluto della Chiesa in materia di contenuti della fede e la conseguente facoltà del libero esame della Bibbia da parte dei credenti. In altri termini Galilei, con il suo metodo scientifico fondato sulla possibilità per tutti gli individui di conoscere la realtà del mondo della natura e di esercitare il loro spirito critico verso qualsiasi autorità costituita del presente o del passato, nonché con la sua riproposizione dell'esegesi non letterale dei testi sacri, agli occhi del clero controriformista assomigliava a un protestante, o quantomeno si avvicinava enormemente al protestantesimo. Nel suo celebre capolavoro teatrale Vita di Galileo, Bertolt Brecht (1898‑1956) fa dire al protagonista:

Dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio. Tutto il mondo dice: d'accordo sta scritto nei libri, ma lasciate un po' che vediamo noi stessi.

Ecco, proprio questo temeva la Chiesa della Controriforma: che tutto fosse revocato in dubbio, che non si credesse più al contenuto letterale dei testi sacri, che la gente volesse giudicare da sé delle verità della dottrina cristiana.

Il fatto che Galileo Galilei fosse un uomo di grande fama e stimato da molti prelati gli evitò sul momento una dura condanna per quelle sue "spericolate epistole", che già in troppi definivano eretiche. Contro di lui e i galileiani, tuttavia, si mosse il più influente e potente teologo del tempo, il cardinale Roberto Bellarmino, con una lettera dell'aprile del 1615 in cui, rispetto alla validità del sistema copernicano, affermava perentoriamente:

1. Dico che mi pare che V P. [il priore Paolo Antonio Foscarini destinatario della missiva] et il Signor Galileo facciano prudentemente a contenersi a parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. Perché il dire [...] che realmente il sole stia al centro del mondo, [...] è cosa molto pericolosa [...], anco di nuocere alla Santa Fede. [...]

2. Dico che il Concilio [di Trento] prohibisce esporre le Scritture contro il comune consenso dei Santi Padri [...] che tutti convengono in esporre ad litteram ch'il sole è nel cielo e gira intorno alla terra.

3. Dico che quando ci fusse vera dimostrazione che il sole stia nel centro del mondo [...], allora bisognerà andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non le intendiamo, che dire che sia falso quel che si dimostra.

Come si può notare, le proposizioni di Bellarmino rappresentavano per certi versi un tentativo di mediazione fondato sull'interpretazione "strumentalista" dei sistemi cosmologici, la stessa cioè già sostenuta da Tolomeo, Maimonide, Tommaso d'Aquino e Osiander, secondo la quale i modelli del cosmo sono soltanto delle mere ipotesi sulla realtà e non la realtà medesima: essi hanno natura precipuamente matematica, ma non fattuale. Insieme alla proposta di mediazione, però, l'illustre cardinale, che ‑ non va dimenticato ‑ aveva nientemeno fatto parte del tribunale che aveva condannato al rogo Giordano Bruno, lanciava anche un chiaro ammonimento allo scienziato a non esagerare nel volersi intrigare di Sacra Scrittura e soprattutto a rispettare l'interpretazione tradizionale dei Padri della Chiesa. Un ammonimento sicuramente molto mirato, dal momento che Galileo nelle sue lettere e nei discorsi pubblici non perdeva occasione di cercare di dimostrare che i testi biblici non sostenevano per nulla il geocentrismo, fino addirittura a tentare di adattarli al copernicanesimo. Per tutta risposta agli inizi del 1616 Galileo Galilei si precipitò a Roma con la speranza e la pretesa di convincere tutti della veridicità del modello copernicano tramite il ricorso decisivo alla sua "arma segreta" che noi già conosciamo: il flusso e il riflusso delle maree. Ma tutto andò all'opposto di quanto si aspettava. Nei salotti venne guardato con diffidenza e dovette ricorrere al meglio della sua arte oratoria (in cui era indubbiamente un maestro) per fronteggiare umerosi avversari. I gesuiti del Collegio Romano questa volta lo trattarono con freddezza e in maniera evasiva. II cardinale Bellarmino per lungo tempo si rifiutò di riceverlo e infine, quando gli aprì la porta, fu per comunicargli formalmente che il Sant'Uffizio aveva condannato la dottrina copernicana come stolta et assurda in filosofia e formalmente eretica in quanto contraddice espressamente alle sentenze delle Sacre Scritture. Insomma un chiaro pronunciamento da parte della Chiesa, che voleva così porre fine a qualsiasi equivoco e al disorientamento dei credenti al quale anche lo scienziato pisano aveva molto contribuito. Insieme a questo decreto dell'Inquisizione che condannava salomonicamente il copernicanesimo ma non Galileo, quest'ultimo ricevette anche un ammonimento (monuit) esplicito del papa a non trattare più l'argomento dell'eliocentrismo, monito che in seguito egli dichiarerà non si sa con quanta sincerità ‑ di non aver inteso bene.

Nonostante tale intimazione, infatti, nel 1632 osò pubblicare il Dialogo dei massimi sistemi, nel quale ironizzava sulle concezioni tolemaiche e nel finale sembrava perfino prendersi gioco delle idee del nuovo pontefice Urbano VIII, alias Maffeo Barberini, persona questa che egli includeva erroneamente tra i suoi sostenitori e che riteneva di aver già soddisfatto cambiando, come da sua espressa richiesta, il titolo del libro. E invece proprio l'ira del papa, sentitosi probabilmente preso in giro, diede avvio al procedimento di accusa contro Galilei e alla sua celebre condanna seguita da abiura del 1633.

Merita citare per esteso il testo dell'abiura per il significato che esso riveste nella storia dei difficili rapporti tra scienza e teologia:

Io Galileo, figlio del q. Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell'età di anni 70, costituito personalmente in giudizio e inginocchiato davanti a voi Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, in tutta la Repubblica Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; [...] sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il Sole sia centro del mondo e immobile e che la Terra non sia centro e che si muova. Pertanto [...], con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa. [...] Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obbligato come sopra; [...] in Roma, nel convento della Minerva, questo 22 giugno 1633. Così si sanzionava una drastica rottura tra scienza moderna e fede cristiana che non aveva alcuna autentica ragione di esistere e che produrrà molte funeste conseguenze non soltanto nei rapporti tra la Chiesa e la comunità scientifica d'Occidente, ma anche sull'autonomo sviluppo tanto del sapere moderno quanto della teologia.

 

Gli errori incrociati

Si è discusso e si discute ancora molto sia sul vero significato della condanna della Santa Inquisizione, sia sulle rispettive responsabilità di Galileo e della Chiesa nella drammatica lacerazione tra scienza e fede. Senza dilungarci troppo, diciamo subito che secondo noi il verdetto anticopernicano del Sant'Uffizio ha assai poco a che spartire con questioni di ordine astronomico e, se vogliamo, anche con questioni strettamente di teologia razionale.

Leggendo il testo della sentenza del tribunale dell'Inquisizione e ripercorrendo gli avvenimenti che l'hanno preceduta, si ha la netta impressione che la condanna di Galileo trovi il suo fondamento più in ragioni politico‑teologiche che di vera eresia dottrinale, più in motivi connessi con il timore del diffondersi di idee "protestanti" o comunque contrarie al magistero ecclesiastico piuttosto che da una effettiva inconciliabilità della teoria copernicana con la dottrina cristiana. Per non dire inoltre dei fattori di suscettibilità personale dei protagonisti, nonché delle evidenti incomprensioni tra Maffeo Barberini (papa Urbano VIII) e lo scienziato pisano. Lo stesso Galilei testimonia infatti su questo clima controriformistico in una lettera all'amico Elia Diodati con le seguenti parole:

Intendo i Padri Gesuiti haver fatto impressione in teste principalissime che tal mio libro [il Dialogo dei massimi sistemi] è esecrando e più pernitioso per la Santa Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino.

Pare dunque piuttosto evidente che «l'affare Galileo non riguardava l'astronomia, riguardava il Concilio di Trento». Ma non basta, perché in quel periodo a condizionare le decisioni del pontefice contribuivano congiunture di tipo storicopolitico sovranazionali conseguenti all'andamento della cosiddetta Guerra dei Trent'anni (1618‑1648), la quale presentava molti risvolti religiosi (i conflitti tra principi e imperatore cattolici contro i principi protestanti) e che si trovava allora nel cosiddetto "periodo svedese" (1630‑1635), ossia nella fase della discesa in campo sul fronte protestante del re di Svezia Gustavo Adolfo, alleato della Francia del cardinale (cattolico) Richelieu. Simili eventi costringevano Urbano VIII a respingere coi fatti le accuse dei suoi oppositori interni che lo tacciavano senza mezzi termini di essere troppo debole verso gli eretici e i protestanti. E uno di questi fatti fu appunto il processo a Galileo Galilei. In tutta questa vicenda non pare vi sia stato nessuno nel Sant'Uffizio che si sia interessato a fondo dell'idea di Dio professata da Galilei o di dove stesse davvero la "verità scientifica", ma tutta l'attenzione si concentrò sui pericoli per la Chiesa che potevano discendere dall'atteggiamento irriverente dello scienziato pisano (il quale scrivendo il Dialogo dei massimi sistemi aveva disubbidito a un esplicito ordine di papa Paolo V) e dall'esempio negativo che egli andava involontariamente rappresentando agli occhi dei fedeli. In altre parole, in questa controversia la questione del ruolo di Dio nella creazione dell'universo rimase decisamente sullo sfondo, benché pare fosse stata sollevata dallo stesso Urbano VIII allorché, dando un via libera ufficioso alla pubblicazione del Dialogo, aveva preteso ‑ oltre al già citato cambiamento del titolo originario dell'opera ‑ che vi venisse affermato chiaramente il principio secondo il quale Dio, in virtù della sua onnipotenza, avrebbe potuto anche dar forma a un cosmo del tutto diverso e perfino contrario alla nostra visione razionale dei fenomeni.

Galileo, in sostanza, avrebbe dovuto mettere in grande rilievo un argomento forte (saldissima dottrina) della teologia medioevale che va sotto il nome di potentia Dei absoluta (la potenza assoluta di Dio), invece si limitò a far dire a Simplicio:

So che amendue voi [si rivolge ovviamente a Salviati e Sagredo] interrogati se Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all'elemento dell'acqua il reciproco movimento [il flusso e riflusso delle maree], che in esso scorgiamo, in altro modo [...], so, dico, che risponderete, aver egli potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed anco dall'intelletto nostro inescogitabili.

Ora, una tesi di questo genere risultava diametralmente difforme dal modo col quale Galileo concepiva Dio, vale a dire dall'idea di un'Intelligenza razionale predisposta per propria essenza a dar vita unicamente a un universo dalla perfetta struttura geometrico‑matematica e quindi del tutto conforme a quel linguaggio matematico della natura di cui è partecipe anche la mente umana. Non sorprende pertanto che il nostro scienziato si pieghi alla richiesta del papa, ma soltanto per metterla in bocca allo scipito Simplicio, poiché per lui la nozione di un Ente divino che crea un mondo arbitrario e inintelligibile dal pensiero logico risultava tanto inaccettabile quanto insopportabile. E, come sappiamo, pretendere che Iddio non possa contraddire se stesso non vuol dire affatto negarne l'onnipotenza, anzi significa rispettarne appieno la natura eminentemente e assolutamente razionale. Infatti, nonostante la sua sincera fede religiosa, il Dio di Galilei è già il Dio dei deisti, il primo motore e architetto della machina mundi e non più Dio della storia della tradizione ebraico‑cristiana. Allorquando, infine, Galilei pretese di intrigarsi espressamente di teologia e si mise in testa di ottenere direttamente dal sommo pontefice il riconoscimento della validità del sistema copernicano e della sua conformità alle Scritture, la reazione dell'Inquisizione fu immediata e determinata. Lo scienziato pisano, dal canto suo, non era come uomo della stessa pasta di Giordano Bruno, ma visto come si erano messe le cose, se avesse rifiutato di abiurare le conseguenze avrebbero potuto essere per lui assai nefaste. Scrive Dijksterhuis senza infingimenti:

Taluni sono inclini a chiamare Galileo un martire della scienza. Ma essi o ignorano l'andamento del processo di Galileo oppure non sanno che cosa sia un martire. [...] Egli fece tutto quello che poté per liberarsi della colpa che in senso formale aveva indubbiamente commesso [...] e, nel far ciò, non indietreggiò di fronte alla più abbietta umiliazione. Nessuno ha il diritto di rimproverarlo per aver fatto ciò; infatti una convinzione scientifica è meno atta di una convinzione religiosa a ispirare eroismo. Ma non si devono confondere le categorie e onorarlo per un atteggiamento su cui è meglio stendere un velo. Uno studioso italiano contemporaneo ha avanzato a suo tempo una tesi singolare sulla base di nuovi documenti: lo scienziato pisano sarebbe stato condannato non solo e non tanto per aver professato il copernicanesimo, ma soprattutto per la concezione atomistica della materia messa in evidenza in alcuni passi de Il Saggiatore (per esempio le «qualità primarie» e «qualità secondarie»); teoria che si sarebbe rivelata in pericoloso contrastato con la dottrina dell'eucarestia (la transustanziazione) proclamata dal Concilio di Trento. Può essere indubbiamente che tra i motivi generali di ostilità degli inquisitori romani verso Galileo ci fosse anche il suo atomismo di fondo, ma noi preferiamo ritenere che la causa fondamentale di quanto accadde risieda nel modo in cui egli aveva propugnato e difeso la teoria copernicana.

Crediamo anche che la sua intransigenza nel non voler accettare la via d'uscita prospettatagli da Bellarmino, cioè di trattare delle questioni cosmologiche «ex suppositione», fosse dovuta certo al suo rifiuto di distinguere ‑ come facevano gli aristotelici ‑ tra fisica e matematica, tra scienza del mondo reale e scienza delle deduzioni numeriche. Tuttavia, oltre a questa motivazione, vi era pur sempre la sua profonda convinzione che il sistema conforme alle «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni», cioè vero a tutti gli effetti, fosse realmente quello di Copernico. Per giunta, procedendo dalla tesi già menzionata secondo cui il buon Dio non può averci dotato della conoscenza dei sensi, del discorso e dell'intelletto per ingannarci, egli considerava coerentemente le ipotesi matematiche alla stregua dei postulati geometrici, ossia delle verità dimostrabili per via logico‑deduttiva e verificabili nella natura per via sperimentale, quindi in modo comunque difforme dalla tradizione aristotelico‑scolastica. Quanto all'interrogativo su quale fosse il vero obiettivo di Galileo Galilei nell'insistere pervicacemente affinché il magistero cattolico si schierasse a fianco del copernicanesimo, tre sono le principali soluzioni proposte dagli storici della scienza: 1. una questione di prestigio personale; 2. un'autentica difesa della verità e dell'autonomia della scienza; 3. un sincero turbamento della sua coscienza di credente nell'assistere a un grave errore della Chiesa.

Mentre va data per scontata, e ne abbiamo visto i motivi, la presenza nel comportamento dello scienziato dell'elemento tipicamente seicentesco della difesa dell'onore e della ricerca del successo individuale, resta invece ancora da stabilire se nel suo animo, accanto alle questioni di blasone, albergassero più gli interessi della scienza o quelli della fede cristiana. Da un versante il filosofo della scienza Ludovico Geymonat scrive:

Essendo nato in un paese cattolico egli era cattolico praticante; ma il problema religioso non costituiva per lui il benché minimo assillo [...]. Ciò che, invece, lo interessava al massimo grado, suscitando la sua più viva e sincera ammirazione, era la potenza organizzativa della Chiesa cattolica. [...] Di qui la convinzione radicatasi nel suo animo che occorreva tentare ogni mezzo per convertire la Chiesa alla causa della scienza, per impedire che sorgesse fra esse una frattura che avrebbe pericolosamente ritardato lo sviluppo della ricerca scientifica.

Sull'altro versante lo storico della scienza Stillman Drake sostiene:

La mia ipotesi [...] suppone che lo scienziato [Galileo] si tormentasse non per l'astronomia copernicana, ma per il futuro della Chiesa, e volesse proteggere la fede religiosa contro qualsiasi scoperta scientifica avvenire.

Ebbene, tra queste due ultime posizioni ci piace pensare che la verità, come spesso accade, stia nel mezzo. Galilei si considerava innanzi tutto un "buon cattolico" e, come tale, era profondamente preoccupato tanto di una possibile divaricazione tra scienza moderna e religione cristiana, che sarebbe risultata dannosa per entrambe, quanto di un imperdonabile errore di valutazione della Chiesa che, una volta resosi evidente a tutti, avrebbe riversato su di essa grande discredito e grave danno. Profeticamente, infatti, scriveva di suo pugno in margine alle carte del Dialogo dei massimi sistemi:

Avvertite, teologi, che volendo fare materia di fede le proposizioni attinenti al moto e alla quiete del Sole e della Terra, vi esponete al pericolo di dover forse col tempo condannar d'eresia quelli che asserissero la Terra star ferma e muoversi di luogo il Sole; [...] quando si fosse dimostrato la Terra muoversi e il Sole star fermo.

Ci è ormai chiaro, dunque, come per lo scienziato pisano ricerca scientifica e fede cristiana siano due pilastri fondamentali dell'umana esistenza: due facce di una sola verità, che nell'interesse del genere umano devono rispettarsi e sorreggersi a vicenda, mai scontrarsi. Questo è quanto Dio stesso esige e quanto Galileo sostiene di essersi sforzato di fare non avendo mai altra mira che alla dignità della Santa Chiesa e non indirizzando ad altro fine le mie deboli fatiche.

Zelo religioso e zelo scientifico formano pertanto in lui una cosa sola, credendo con ciò di rispettare la volontà dell'Intelligenza divina.

Ma forse, in ultima analisi, proprio a cagione di un eccesso di zelo si giunse alla tragica rottura tra scienza e fede cristiana che soltanto in tempi recenti sembra in via di superamento. Le conseguenze negative per l'una parte e per l'altra, come giustamente paventava lo scienziato pisano, sono state davvero tante e alcune assai perniciose, non ultima quella di diffondere la convinzione che il problema di Dio esuli totalmente dalla scienza o che addirittura collida apertamente con il progresso delle scienze naturali. Anche in questo caso qualcuno ha voluto andare alla ricerca del principale responsabile di tale frattura e il fronte degli studiosi si è nuovamente diviso tra chi ha puntato il dito sull'intolleranza della Chiesa e chi invece ha stigmatizzato l'avventatezza, la cocciutaggine e la presunzione di Galileo nel voler ottenere ragione a ogni costo.

Delle cospicue critiche e "autocritiche" nei confronti degli errori della Santa Inquisizione è inutile dire, tanto sono perspicue e note a tutti; diverso, per contro, è il fenomeno dei biasimi mossi allo scienziato pisano da alcuni storici contemporanei per il suo atteggiamento poco conciliante e testardo nel propugnare il copernicanesimo. Arthur Koestler, per esempio, non nasconde affatto la sua forte antipatia per un personaggio che, per puntiglio e prestigio personale, provoca «uno degli episodi più disastrosi per la storia delle idee, in quanto la sventata crociata di Galileo aveva screditato il sistema eliocentrico e precipitato il divorzio tra scienza e fede».

Premesso che non ci appassionano per niente i dibattiti storici fatti col "senno di poi", perché risultano quasi sempre sterili e fuorvianti, di fronte a simili giudizi ci limitiamo a dire: in questa triste vicenda sicuramente sono stati commessi molti errori, da una parte e dall'altra, niente tuttavia può giustificare l'atto di chi impedisce con la forza la legittima libertà di pensiero e d'azione di un individuo. Il "caso Galilei", comunque, non poteva fermare e non ha fermato il processo evolutivo della scienza verso l'autonomia dalla metafisica e dalla teologia, poiché questo era ormai nell'ordine delle cose, però lo ha rallentato e lo ha reso alquanto più difficile. Esso inoltre ci ha lasciato in eredità uno straordinario esempio di errori incrociati su cui vale la pena meditare. Da una parte, infatti, la Chiesa ha sbagliato opponendosi all'esegesi non letterale della Bibbia che oggi tutti i maggiori teologi ammettono; dall'altra, Galilei è caduto in errore rifiutando l'ipoteticità del sistema copernicano prospettatagli dal cardinal Bellarmino, mentre oggi la moderna epistemologia riconosce il carattere teorico e ipotetico della scienza. Perciò «ci troviamo così di fronte al paradosso di un Galilei che sbaglia nel campo delle scienze e di una Curia che sbaglia nel campo della teologia». Un esempio, questo, che deve indurci a non perdere mai di vista i limiti della nostra conoscenza, specie di quella scientifica, e a ricordarci sempre della fallibilità umana, magari ripetendo spesso il famoso motto socratico "So di non sapere".

Dopo la sentenza del Sant'Uffizio, a Galileo rimasero da vivere meno di nove anni tra molte angustie morali e fisiche, prime fra tutte la mancanza di libertà, i dolori familiari (la morte della figlia più cara) e la perdita della vista. Ma la sua tenacia gli permise ancora di scrivere l'opera scientifica più importante, in cui si gettano le basi della dinamica moderna:

Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica e i movimenti locali. I suoi biografi raccontano come in questi tristi anni per consolarsi delle sue disgrazie leggesse spesso alcune lettere che suor Maria Celeste (Virginia), la figlia amata alla quale avrebbe voluto tener nascosti i suoi guai con l'Inquisizione, gli aveva inviato in quelle ambasce. E con due di queste lettere vogliamo concludere il capitolo:

 

Carissimo Signor Padre, ho voluto scrivergli adesso, acciò ella sappia che io sono a parte de i suoi travagli, il che a lei dovrebbe essere di qualche alleggerimento: non ne ho già dato indizio ad alcun'altra, volendo che queste cose di poco gusto siano tutte mie... E chi sa che mentre adesso sto scrivendo, V S. non si ritrovi fuora d'ogni frangente e d'ogni pensiero? [scritta il 30 aprile 1633, prima della condanna]

 

Carissimo Signor Padre, adesso è il tempo di prevalersi più che mai di quella prudenza che gl'ha concesso il Signor Iddio, sostenendo questi colpi con quella fortezza d'animo, che la religione, proffessione et età sua ricercano. E già che ella per molte esperienze può haver piena cognizione della fallacia e instabilità di tutte le cose di questo mondaccio, non dovrà far molto caso di queste burasche, anzi sperare che presto siano per quietarsi, e cangiarsi in altrettanta sua soddisfazione [scritta il 2 luglio 1633, dopo l'abiura].