Hannah Arendt: Contro Freud e la sociologia scopriva San Francesco e Péguy

 

«Temo di dover protestare. Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione, se si può considerarla tale, è la teoria politica». È vera e al tempo stesso è falsa questa premessa che apre l'Archivio Arendt 1930-1948, una importante raccolta di saggi, articoli, conferenze, recensioni della grande pensatrice ebrea tedesca che vengono proposti da Feltrinelli (primo volume pp. 270, e 28,41, £. 55.000) a cura di Simona Forti.
È vero sicuramente che la teoria politica è il cuore del suo lavoro per quanto chiaro, equilibrato, influente esso si offre al nostro tentativo di fare un bilancio del '900, che ci appare nella sua indole fondamentalmente totalitaria anche in virtù di quanto pensato e scritto dalla Arendt. È falso se si crede che la sua percezione del pensiero, cresciuta all'ombra di Martin Heidegger, sia meno profonda, meno radicale, meno «filosofica» che in altre figure maschili più accreditate.
Anzi, questo volume dimostra esattamente il contrario: quanto siano cioè «pensate» le radici di un'opposizione politica scelta mettendo a repentaglio la sua identità tedesca prima del '45, quando fuggiva dal nazismo, e quella ebraica dopo la fine della guerra, quando con il saggio La banalità del male sul processo Eichmann mise in discussione gli stereotipi manichei dell'opinione pubblica israeliana e mondiale.
Questa raccolta riserva delle sorprese. In particolare un testo come «Filosofia e sociologia», del 1930, in cui una Arendt ventiquattrenne aggredisce due nodi essenziali del pensiero che sarebbe diventato presto dominante: la pretesa della sociologia e della psicanalisi di «far fuori» la nostra cultura umanistica, e in ultima analisi di cancellare l'irriducibilità dell'«io» al contesto nel quale la sua esperienza si sviluppa.
La radice di tutta la critica al totalitarismo (cioé della filosofia politica matura di Hannah Arendt) è già chiara in questo inizio, sorprendentemente cosciente. La filosofa tedesca capisce benissimo che la tendenza della sociologia a relativizzare ogni affermazione di valore al suo contesto (pensiamo a cosa significa per noi oggi la «tirannia dei sondaggi», per cui diventa un criterio di riferimento ciò che sostengono in tanti) è un attacco a tutta la cultura. La sociologia si propone come «la scienza chiave» della crisi: quello che resterà dopo il suo passaggio, il precipitato di questa aggressione ai fondamenti sono «giudizi di valore metafisico e ontologici» ridotti a pura ideologia, a sovrastrutture che non hanno nulla di reale.
La sociologia (oggi ad essa dovremmo associare l'antropologia) abbatte le certezze a colpi di storia, mostrando che ogni epoca e ogni contesto producono credenze diverse, che dipendono da un determinato assetto sociale (Marx direbbe: economico). Ma - fa notare Hannah Arendt, con grande acutezza - essa parte da un concetto di realtà che può essere discusso: crede cioè che la realtà sia sempre e solo l'«esistenza pubblica». La società è considerata «il mondo», e fuori di esso non v'è che illusione, ideologia (quando si vince), oppure utopia (quando si perde).
Ma interpretando il pensiero come un tentativo irrealizzabile di evadere da questo recinto - dice la Arendt - la sociologia «non rende giustizia delle possibilità dell'esistenza umana». Non è vero che all'uomo resti solo l'alternativa tra un'accettazione passiva della società in cui è nato e la fuga. Ed è significativo che per fare un esempio di una «terza via» nomini l'«amore cristiano» e san Francesco: «Quando gli individui non comprendono più la propria esistenza comunitaria come un dato» - scrive con grande chiarezza -, e il posto dell'individuo è determinato «dallo status economico e non dalla tradizione», egli è solo con se stesso, e non può che sognare (pericolosi) mondi perfetti. «Solo una volta che il vincolo religioso è andato perduto l'ordine pubblico diviene davvero così onnipotente». Lo Stato diventa cioè tutto, come è accaduto con il nazismo, e con il comunismo.
E quando parla di «vincolo religioso» non intende la «cultura cristiana», che la sociologia ha inevitabilmente relativizzato come una delle tante culture possibili, ma proprio quella koinonìa, quell'essere uniti da un'esperienza primordiale che fonda l'avvenimento cristiano, e che solo in seguito riceverà una declinazione «culturale» (e quindi storica, relativa). Quel vincolo - avrebbe detto il suo maestro Heidegger - è piuttosto un evento.
Non è un caso dunque se due acuti saggi tradotti nell'Archivio sono dedicati ad Agostino d'Ippona e a Søren Kierkegaard. E soprattutto se in «Cristianesimo e rivoluzione» la Arendt si interessa alle figure di Péguy, Bernanos, Maritane, Chesterton, che vede come i primi cristiani di un'epoca nuovamente pagana. «L'insistenza della dottrina cristiana sui limiti della condizione umana - scrive - bastava in un certo senso ai suoi adepti per farsi un'idea filosoficamente molto profonda dell'essenziale disumanità di tutti i tentativi moderni - psicologici, tecnici, biologici - di trasformare l'uomo in un mostroso superuomo. Essi erano pienamente consapevoli che una ricerca della felicità che comporti una completa eliminazione delle lacrime è destinata alla fine a cancellare anche le risa».
Quasi un manifesto, per il XXI secolo.