Tu solo, o Cristo, manifesti il volto del Padre:
la sua misericordia, la sua tenerezza, il suo sguardo d’amore.

Tu sei la nostra luce, la nostra speranza, la nostra guarigione,
la nostra pace, la nostra vita.

Tu sei il nostro modello:
ti sei chinato sulla nostra debolezza per sollevarla.
Hai preso su di te le nostre infermità per guarirle.
Hai insegnato a vedere te in ogni uomo.

Concedici di essere fermamente stabili nella fede,
di avere la salute del corpo e dello spirito per poterti lodare.
Se ti guardiamo non moriremo.
Se confessiamo il tuo nome, non andremo perduti.
Se ti preghiamo, saremo esauditi.
Donaci forza e costanza nel tuo Spirito
fino alla statura piena e al compimento perfetto

(Preghiera del III secolo)

 

Il 23 agosto 1946 Alberto Marvelli riprende in mano il suo diario. Lo ritrova in un cassetto quasi dimenticato tra altre carte. L'ultima pagina porta la data del gennaio 1942. Ora che l'ha in mano, gli ritorna il desiderio di fermarsi un poco, come negli anni dell'università, e fare un serio esame di coscienza. Quanti avvenimenti si erano succeduti nel giro di cinque anni! « La guerra, l'armistizio, la sconfitta, la fine tragica di Lello in Russia, la prigionia di Carlo, lo sfollamento, il fronte, il ritorno nella città semidistrutta, l'attività politica, l'attività professionale... ». Molti anni prima aveva scritto che il buon navigante ogni tanto fa il punto della situazione per verificare la rotta… La risposta che Alberto si dà è dura ed esigente. Eppure questi anni l'hanno visto animatore di molteplici attività, tutte rivolte a servizio dei fratelli; l'hanno visto assiduo alla preghiera, ai sacramenti, alla meditazione!

Come sono passati per me questi anni? Quali progressi ho fatto nella vita spirituale; gli avvenimenti, i dolori, le sofferenze, i sacrifici, le gioie hanno saputo insegnarmi qualche cosa, hanno accresciuto la mia fede, la mia speranza, la carità? Sono progredito, insomma o sono rimasto staticamente fermo o, peggio, ho peggiorato? Voglio analizzare a fondo la vita di questi anni, l'attuale tenore spirituale, voglio fare un accurato e meticoloso esame di coscienza, necessario dopo tanto tempo.

Voglio abituarmi di nuovo a riflettere, a pensare, a meditare, perché sento purtroppo che l'attività intensa di questi ultimi anni è andata a discapito della vita interiore, perché mi accorgo che penso poco, che medito poco, che tiro avanti così alla buona, per tradizione, per abitudine, per inerzia, per spinte estranee, nell'attività professionale e apostolica e politica e caritativa. Sento che i problemi che quotidianamente risolvo non sono frutto di un ripensamento interiore, di uno studio profondo, non sono infine una cosa sentita, sofferta, vissuta, amata, ma una normale, piatta, scialba espressione di una volontà qualunque. A forza di acconsentire, di cedere su qualche punto dei programmi di vita passata, di non approfondire per mancanza di tempo, di voler abbracciare troppo, di voler dare lo spolvero a troppe cose, di volermi interessare di tutto, sto diventando un superficiale, uno che si lascia entusiasmare od abbattere da un discorso o da un articolo, una mezza cartuccia, uno che non ha idee radicate, profonde, decise. Manco di costanza e di fermezza nei propositi, la volontà non risponde più come una volta o forse non ha mai risposto a tono. Abituarsi a esercitare la volontà anche nelle piccole cose è sommamente utile: trascurare questo porta a conseguenze gravi. Non sento più entusiasmo sincero, duraturo per qualche opera, come sentivo per l'Azione Cattolica una volta. Pur dedicandomi a varie attività apostoliche, caritative, assistenziali, politiche, non ho quello slancio che ci vorrebbe, sono un trascinato, lo sento, non un trascinatore, sono un rimorchiato che vive di rendita, per la bontà degli altri, e della fama immeritata di altri tempi. Vorrei lavorare qui, là, vorrei mettere a posto su e giù, ma all'atto pratico se non ricevo l'imbeccata, non marcio. Tutte le idee vengono dagli altri, io sembra che faccia tutto e faccio niente; figuro un attivo degno di essere additato ad esempio, e giro a vuoto, brancolando qua e là, come un mulino a vento, senza concludere. Non do un tono alle mie attività, mi sembrano estranee, pur essendo desideroso di vivere per esse.

Forse è il troppo lavoro professionale? Le preoccupazioni materiali presenti e dell'avvenire? Sì, certo, influiscono non poco, ma è sempre e rimane mia la colpa di questo stato di cose. Più volontà ci vuole, più serietà, più costanza, più studio, più raccoglimento, più meditazione. Qui casca l'asino, è inutile pretendere di voler farsi santi, di essere apostoli, di apparire attivi lavoratori se non si medita, se si corre dietro a ogni pensiero, anche frivolo, se non si è capaci di imporsi un più vivo raccoglimento, un senso critico (buono) di osservazione, un'autonomia di riflessione nei problemi, una sensibilità viva per tutti quei fenomeni spirituali, politici, sociali, religiosi che si verificano intorno a noi. Tutte le idee e le proposte che vengono da una parte si approvano e sembrano buone, le altre si bocciano: perché sono buone, perché sono cattive, quali i lati buoni, quali gli inconvenienti, quali i punti deboli? Bisogna abituarsi a esaminare ogni idea, e studiare e meditare e ripensare. Non voglio essere un peso morto, un burattino che, finita la carica, casca in terra inutile, un fuoco fatuo che si dilegua alla prima brezza contraria, una brina che si scioglie al primo sole. Il Signore mi ha dato una intelligenza, una volontà, una ragione: ebbene, queste devo adoperarle, tenerle in esercizio, farle funzionare. Se non si adoperano si arrugginiscono e si finisce per essere delle nullità, dei terra terra, dei lombrichi che strisciano, senza un'idea buona, geniale, ardita; degli ignavi, a Dio spiacenti.

In realtà la severità con cui Alberto giudica se stesso non è motivata da un indebolimento della sua vita interiore. Sappiamo che Alberto, anche nei momenti di maggiore attività, non ha mai tralasciato la preghiera, l'eucaristia quotidiana, il rosario; il libro di meditazione era rimasto aperto sul suo tavolo, quando lo colse la morte. Ma quanto più si inoltra nel cammino di perfezione e la sua anima è inondata dalla luce di Dio, tanto più chiaramente vede i limiti e l'inadeguatezza del suo amore come risposta all'infinito amore di Dio. Così cresce in lui la convinzione di rispondere male ai doni di Dio, di fare poco di buono, di essere neghittoso, pigro... Queste pagine testimoniano l'ansia e l'aspirazione alla perfezione in Dio, attraverso un profondo scontento di sé; ma sempre con la forza e il coraggio di ricominciare, ogni giorno. Quando scrive queste riflessioni Alberto è all'apice della sua maturità umana e spirituale e nel ritmo pieno della sua attività. È stimato, ricercato, elogiato da tutti. E forse per questo avverte un'intensa sete di raccoglimento, un reale bisogno di ricordarsi i propri limiti; di mettere in luce tutte le sue mancanze; contrapposizione efficace, perché sincera, a quel coro unanime di elogi e riconoscimenti, a quell'alone di simpatia da cui si sentiva circondato. Davanti a Dio Alberto si sente, come aveva scritto anni prima nel Diario, « un peccatore, degno solo del suo disprezzo». Sa che, solo meditando sulla propria debolezza, può approfondire la sua ricerca di Dio e lì trovare le motivazioni per una sempre rinnovata fedeltà all'uomo.

 

L'ultima giornata terrena

Aveva iniziato la giornata di quel sabato 5 ottobre ricevendo l'eucaristia nella sua parrocchia alle 10,30. Aveva trascorso la mattinata in ufficio fra pratiche, problemi e gente da ricevere. Nel pomeriggio aveva tenuto un comizio a Miramare; poi era passato alla sede dei Laureati in Santa Croce. Terminata l'adorazione incontrò alcuni amici. Si fermò ancora qualche minuto rammaricandosi che non si fosse lavorato molto per le elezioni. Volò di corsa verso casa. Sulla piazzetta della chiesa di Maria Ausiliatrice si fermò a parlare con l'amico Pasquale Montevecchi, concludendo con il consueto ottimismo: «Il bene avrà sempre il sopravvento sul male ».

A casa mangiò in fretta; doveva tenere l'ultimo comizio a S. Giuliano a Mare. Non fumò neppure la solita sigaretta. Salutò in fretta la mamma sulle scale. Saltò sulla bicicletta. A duecento metri da casa, superato l'albergo Stella polare, fu investito da un camion militare, che ritornava sulla destra dopo aver sorpassato un filobus in sosta alla fermata. Il camion, che andava a folle velocità, lo colpì al capo con il gancio della sponda laterale, scaraventandolo contro il muretto di cinta di una villa. Alberto non ha ferite, ma ha perso conoscenza, per il forte colpo alla testa. L'infermiera Lina Tordi ha ancora viva la scena: « Il dott. Contarini arrivò in due minuti; mi fece preparare una iniezione di adrenalina, che non servì a nulla. Gli ho sfilato il fazzoletto dal taschino, ne è uscita anche la corona del rosario. Lo lasciammo nella camera del pronto soccorso. Già il polso non c'era più ». Gli fu praticata anche la respirazione artificiale. Inutilmente. Fu subito allestita la camera ardente. «Alberto, vestito di bianco, con l'aspetto di un dormiente: era serenissimo». «Conservava l'abituale franco sorriso ». Tutta la notte fu vegliato dagli amici e da tutti quelli che avevano appreso la triste notizia. Piangevano e pregavano.

Di ritorno dal convegno di Azione Cattolica a Imola, si fermarono anche il presidente nazionale, Luigi Gedda, e l'assistente monsignor Federico Sargolini. Gedda volle vedere la camera di Alberto, come l'aveva lasciata la sera prima: sul comodino la Bibbia e il libro di meditazione Getsemani. Nel vestito, che portava al momento dell'incidente, l'ufficio della Madonna e il santino ricordo degli esercizi spirituali di Rho. Il giorno dopo la camera ardente fu allestita nella chiesa dei Salesiani. Centinaia e centinaia di persone, di tutti i ceti, la visitarono: dal vecchio sindaco socialista, ai politici, agli amministratori, agli amici, ai poveri.

Intanto la città veniva tappezzata di manifesti che esprimevano il dolore per la perdita della sua irrompente giovinezza ed elogiavano le sue virtù umane e cristiane. Anche la cellula comunista di Bellariva scrisse: «I comunisti di Bellariva si inchinano riverenti e salutano il figlio, il fratello che tanto bene ha sparso su questa terra». Il funerale si svolse il martedì 8 ottobre alle ore 15 nella chiesa dei Salesiani. C'era tutta Rimini. Non fu un funerale, ma un trionfo. La bara fu portata a spalle dagli amici dalla chiesa al cimitero, con un corteo che si snodava per circa tre chilometri. Al passaggio della bara si abbassavano le saracinesche dei negozi; le campane delle chiese suonavano; la gente ai lati della strada si inginocchiava e piangeva. Qualcuno toccava la bara con le mani o con altri oggetti o fazzoletti, quasi a volerne conservare più a lungo il ricordo. Alcune mamme incitavano i bimbi, che tenevano in braccio, a mandare baci verso la bara. Fra la folla molti i poveri; alcuni, disperati, dicevano: « Chi ci aiuterà adesso? ». Fu sepolto al cimitero di Rimini nella tomba della famiglia Rastelli, con una semplice lapide, su cui era scritto: «Alberto Marvelli operaio di Cristo 21-3-1918 / 5-10-1946 » .