Un inno ai misericordiosi

da "L'ultimo dio" di Emidio Clementi, Fazi editore, 2004

 

L'assoluta gratuità di un gesto, il senso di solidarietà. Sono cose che esistono, le ho viste con i miei occhi e potrei piangere per questo, per un'unica stupida frase. Come è successo con il vecchio stamattina al parco. Ma a volte ho pensato che fossero angeli.

A Góteborg sono salito su un autobus. Cercavo l'autostrada e da lì un passaggio per Oslo. Ho chiesto al conducente se mi indicava la fermata più vicina. Lui c'ha messo un po' a rispondermi. Poi mi ha detto: «Aspetta qui» ed è ripartito. Ho visto scendere uno dopo l'altro tutti i passeggeri e alla fine sono rimasto da solo. L'autobus continuava ad andare. Non c'erano più fermate. Correvamo su una corsia della tangenziale: tir, autogrill, macchine che sfrecciavano a cento all'ora e in mezzo a tutto questo un autobus di linea che nessuno sapeva dove stesse andando. A cinquanta metri dal casello l'autista ha tirato il freno e ha aperto le porte. «Oslo», mi ha detto indicandomi un cartello stradale.

« Buona fortuna. Io vado a casa». Chi è in grado di un gesto del genere è giusto che sieda accanto ai santi. È giusto che dica la sua anche in mezzo a loro.

E poi il ragazzo che una notte mi ha accompagnato per chilometri attraverso tutto il centro di Bilefeld. Il ragazzo a cui avevo chiesto un'informazione e che mi ha invitato a casa sua a mangiare pane e formaggio. E siamo rimasti a parlare fino a che non era quasi mattina.

O il prete di Falun che ha distrutto la macchina della figlia contro un segnale stradale. Mi aveva fatto salire perché aveva paura di non essere stato chiaro nelle indicazioni. E la figlia che lo aggredisce sul marciapiede di casa e gli ripete: «Perché non mi hai detto che prendevi la macchina, eh papà? Perché fai sempre le cose di nascosto...». E lui che mi guarda vergognandosi della scena che mi costringe a vedere e mi ripete: «Scusami... Mi dispiace... Ma proprio non l'ho visto il cartello. E ora come fai? È così complicato trovare le strade in questo quartiere...».

Questo tipo di angeli appaiono solo quando vedi in faccia la solitudine e ti rendi conto che ne hai paura. Da piccolo ero affascinato da questa frase: «Non do e non voglio». L'avevo sentita dire a Zaré e gliel'avevo copiata. Non do e non voglio. Mi sembrava che fosse qualcosa di forte, un modo duro per porre una barriera tra sé e gli altri. Come faceva Zaré. Ma già allora sapevo che era qualcosa che non potevo permettermi. Ho chiesto e voluto molto più di quanto non abbia dato e crescendo ho imparato anche le maniere per riuscire a pretendere di avere. I ricatti, le indulgenti ammissioni di debolezza; fa tutto parte del mio mazzo di carte. Mi sono nutrito di egoismo e ne sono diventato ingordo. Incapace di ricambiare ho tentato in ogni modo di persuadere. A volte credo che sia stato difficile resistermi. A volte ho giocato queste carte tutte insieme.

Io allora, adesso, consapevole dello stitico egoismo che ho tenuto vigliaccamente celato al mondo, mi inchino a questi angeli della misericordia travestiti da passanti e autisti che tutto bruciano nel gesto, senza tenere niente per sé, nemmeno la purezza di quello che fanno, e mi inchino convinto della loro imprescindibilità e dell'immensa luce che irradiano sul mondo.

Persi i caratteri delle loro facce, persi i luoghi e i motivi che c'erano dietro, io saltuariamente penso ancora a loro. Penso a loro come gente verso cui provo affetto, a cui au­guro buona fortuna e che so di incontrare ancora la prossima volta che avrò la solitudine come compagna e sba­glierò di nuovo strada.