Per una perfetta letizia

p. Francesco, OMI

 

Per stabilire la posizione di un oggetto nello spazio occorre riferirsi a punti fermi, a capisaldi che ne individuino con precisione le coordinate. Così avviene, ad esempio, nella navigazione aerea o marittima. Allo stesso modo è necessario riferirsi a qualcosa di fermo, di incrollabile, di immutabile che si trova fuori di noi, per valutare se nel cammino della nostra vita stiamo procedendo nella giusta direzione. E' per questo che citerà alcuni brani della Scrittura, riferimento immutabile, che potrà aiutarci a comprendere se nella nostra vita esiste quella letizia, quella gioia, di cui ci parla il Vangelo e che Gesù promette ai suoi discepoli:

 

«In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena».

(Giovanni 16, 23-24)

 

 

1. Storie di gente scontenta

 

Scorrendo le pagine della Scrittura ci imbattiamo in molta gente scontenta. Consideriamo alcune vicende per cogliere se esistono in noi particolari che vediamo in quegli avvenimenti biblici.

 

Fin dalle prime pagine della Genesi troviamo il celebre misfatto di Caino ai danni del fratello Abele. Tutto nasce dalla constatazione di una sconfitta: i doni di Caino non sono accetti al Signore come quelli di Abele. Nasce un abbattimento interiore nell'animo di Caino, che giungerà più tardi al gesto inconsulto del fratricidio.

 

Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo dal Signore». Poi partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo.

Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. lì Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradi Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. lì Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso dite è il suo istinto, ma tu dominalo».

(Genesi 4, 1-7)

 

 

Ecco un altro brano, preludio di un nuovo fratricidio, non consumato in senso materiale ma certamente perpetrato in senso spirituale.

 

Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti  i  suoi  figli,  lo  odiavano  e  non  potevano parlargli amichevolmente. (...) I suoi fratelli andarono a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: «Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro». Gli rispose: «Eccomi!». (...) Allora Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. Essi lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire. Si dissero l'un l'altro: «Ecco, il sognatore arriva! Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: Una bestia feroce l'ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!». (Genesi 37)

 

Infine, un terzo brano: anche qui si tratta di fratelli ed anche qui sul rapporto fraterno cala la pesante ombra dell'indifferenza, una sorte di morte affettiva e spirituale:

 

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. lì servo gli rispose: E tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. (Luca 15, 25-28)

 

Accostando i tre episodi come punti fermi della nostra considerazione, vediamo quali sono le note comuni che possono avere uno spessore universale e che, superando le singole circostanze, rivelano un significato utile anche per noi.

 

C'è un padre che sembra fare preferenze per un figlio, sembra amarne uno più di tutti altri. Nel caso di Caino ed Abele il padre è Dio, per Giuseppe e i fratelli si tratta di Giacobbe, nella parabola del Padre misericordioso è un padre di famiglia, non meglio identificato.

Nei tre episodi i fratelli vogliono quantificare l'amore del Padre per loro ed arrivano alla conclusione che il Padre per essere giusto dovrebbe amare di meno gli altri. In particolare, tra Caino e Abele la quantificazione passa attraverso la presunta superiorità spirituale di una civiltà nomade e dedita alla pastorizia rispetto ad una sedentaria dedita all'agricoltura. Nel caso di Giuseppe e i suoi fratelli il contenzioso ruota attraverso i diritti di primogenitura. Nel terzo ed ultimo caso si tratta non solo di primogenitura ma anche di merito lavorativo.

In tutte e tre i casi il criterio del merito si dimostra non sufficiente a giustificare e moralizzare gli atti che esso esige. Il criterio della quantificazione della giustizia, infatti, è il merito e la sua unità di misura è la legge, ovvero l'insieme dei diritti e doveri che una società si è data, anche partendo da principi sacrosanti di equità e di organizzazione.

I fatti divengono paradossali ed inquietanti agli occhi del lettore che si rende conto che ciò che la dottrina del merito reputa giusto e morale, risulta, invece, ingiusto o addirittura violento, se è considerato in una visione sapienziale, libera da compromessi, interessi e animosità.

Noi non vogliamo, però, addentrarci in considerazioni di questo tipo, che sposterebbero la nostra attenzione sul piano dell'etica e della giustizia. Tornando al tema della gioia, a noi interessa considerare come la conseguenza di una tale visione delle relazioni è l'infelicità, un'infelicità cosi acuta da arrivare al sottile e perverso ragionamento di sopprimere il fratello amato dal padre per sopprimere l'infelicità. In una tale concezione, la gioia sarebbe ripristinata non tanto attraverso la valorizzazione delle giuste relazioni quanto dalla loro soppressione.

É una giustizia che non si regge sul bene ma sull'interesse e si realizza attraverso il fratricidio. Quest'ultimo non è sempre cruento. Spesso è perpetrato creando terra bruciata intorno al fratello troppo amato, recidendo intorno a lui tutti i legami d'amore che lo fanno sentire vivo (cfr. mobbing, ministeri ad personam, chiusura nei ruoli).

 

2.    La radice della gioia

Tutti noi possiamo trovarci in una tale situazione, possiamo essere noi stessi ad emarginare chi ha successo, chi è amato, chi riceve un premio. Tuttavia, constatare la nostra incapacità di gioire della gioia degli altri non deve essere motivo di meraviglia o di scoraggiamento. Può diventare occasione per nuovi passi di maturità, alla scoperta della radice della gioia.

Essa non si trova nelle cose che possediamo ma nell'autenticità delle nostre relazioni, prima tra tutte nella nostra relazione con Dio. Abele, Giuseppe, il figlio minore della parabola, erano amati "di più", e vero; tuttavia anche Caino, anche i fratelli di Giuseppe, anche il fratello maggiore della parabola lo sono in un modo che è diverso perché diverse sono le persone ma non "quantitativamente" minore. E importante, dunque, penetrare il senso di questo "di più", del mio "di più". Il "di più" di ognuno è collocato nella personale relazione che ciascuno ha con Dio. Una relazione che non è condizionata né da limiti né da qualità personali.

 

L'amore di Dio è infinito per ciascuno e nessuno può dire: Dio mi ama meno degli altri. É possibile dire, invece, Egli mi ama in un modo personale e quindi diverso dagli altri, irripetibile. Il problema nasce quando pensiamo che Dio ci ami di meno perché non abbiamo corrisposto alla sua grazia, perché non siamo stati generosi, perché non abbiamo fatto questo o quello, perché l'ambiente ci ha penalizzati, perché siamo stati oggetto di giudizio, ecc. In tutto questo corriamo solo il rischio di trasferire in Dio sentimenti che sono soltanto nostri. In Lui le cose stanno molto diversamente:

 

O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivre te. lo stabilirò per voi un'alleanza eterna, i favori assicurati a Davide.

(/saia 55, 1-3)

 

Ma c'è di più: la consapevolezza del nostro nulla può predisporci a entrare in un nuovo rapporto con Dio, un rapporto non è governato dalla dinamica del merito e del premio, ma reso evidente dalla gratuità del dono e dell'amore. La gioia vera nasce qui. Essa è comunicabile agli altri, anzi urge nell'animo fino a diventare un canto, una danza, come per Maria che la condivide con la cugina Elisabetta facendola diventare servizio e lode:

 

In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».

Allora Maria disse:«L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre».  Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

(Luca 1, 39-56)

 

3.    Perfetta letizia

 La gioia vera, la "perfetta letizia", nasce, dunque, dal rapporto perfetto con Dio. Più questo relazione si libera dalle sovrastrutture del merito e di una morale fatta di osservanze esteriori, più diventa fonte di una gioia vera che coinvolge tutta la nostra persona.

Nel libro dei Fioretti di San Francesco si parla ai perfetta letizia e si introduce il discorso attraverso un primo climax di affermazioni che riguarda il successo del frate nel suo ministero fuori dal convento per le loro doti morali e spirituali.

 

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Agnoli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il cruciava, chiamò frate Leone il quale andava un poco innanzi, e disse così:

 

Il merito della buona testimonianza

 

"Frate Leone, avvegnadio ch'e frati minori di ogni terra dieno grande esempio di santità e buona edificazione, nondimeno scrivi, e nota diligentemente, che non è ivi perfetta letizia".

 

L'autorità di chi fa miracoli

 

E andando più oltre, santo Francesco il chiamò la seconda volta: "O Leone, benché 'I frate minore illumini i ciechi, distenda gli attratti, cacci i demoni, renda l'udire a' sordi, l'andare a' zoppi, il parlare a' mutoli e (maggior cosa è) risusciti il morto di quattro dì, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".

 

 

L'ascolto dovuto all'uomo spirituale capace dell'arte del discernimento

 

E andando un poco, santo Francesco grida forte: "O frate Leone, se 'I frate minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienzie e tutte le scritture, sì ch'e sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future, ma eziandio i segreti delle coscienzie e degli animi, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".

 

 La reverenza dovuta all'uomo di cultura

 

Andando un poco più oltre, santo Francesco ancora chiamò forte: "O frate Leone, pecorella di Dio, benché 'I frate minore parli con lingua d'angeli e sappi i corsi delle stelle e le virtù dell'erbe e fosson gli rivelati tutti i tesori della terra e cognoscesse le nature degli uccelli e de' pesci e di tutti gli animali e degli uomini e degli arbori e delle pietre e delle radici e dell'acque, scrivi che non ci è perfetta letizia".

 

 

Il successo dovuto alla capacità oratoria

 

E andando anche un pezzo, santo Francesco chiama forte: "O frate Leone, benché 'I frate minore sapesse si bene predicare, che convertisse tutti lì 'in fedeli alla fede di Cristo, scrivi che non è ivi perfetta letizia".

 

 Il testo opera una splendida rilettura in chiave, probabilmente omiletica, dell'inno alla carità di Paolo (1 Corinzi 13). Il testo è indirizzato non più alla diatriba circa i carismi della comunità di Corinto ma, con tutta probabilità alle tensioni della fraternità. In ogni caso il lettore è preso dal ritmo progressivo delle affermazioni e non può non formulare dentro di sé la domanda di frate Leone:

 

E durando questo modo di parlare bene due miglia, frate Leone con grande ammirazione il domandò, e disse: "Padre, io ti prego dalla parte di Dio, che tu dica ove è perfetta letizia

 

Con frate Leone siamo tutto in ascolto: siamo arrivati al nocciolo della questione che non è solo quella di Corinto o di quella fraternità ma è la questione di sempre che ci interpella come una sfida da affrontare e vincere nel nostro oggi, non solo per un dovere di testimonianza religiosa ma anche per una risposta adeguata alla nostra sete di felicità:

 

E santo Francesco gli rispuose. "Quando noi giugneremo a Santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati e afflitti di fame, e picchieremo la porta del luogo, e 'I portinaio verrà adirato e dirà: "Chi siete voi?" e noi diremo: "Noi siamo due de' vostri frati" e colui dirà:

"Voi non dite vero: anzi siete due ribaldi, che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de' poveri; andate via", e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all'acqua, col freddo e colla fame, in fino alla notte; allora, se noi tante ingiurie e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbazione e sanza mormorazione, e penseremo umilmente e caritativamente che quel portinaio veracemente ci cognosca e che Iddio il faccia parlare contra noi, o frate Leone, scrivi che ivi è perfetta letizia.

E se noi perseverremo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie, dicendo: "Partite vi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, chà qui non mangerete voi, ne albergherete"; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore o frate Leone, scrivi che qui è perfetta letizia.

E se noi, pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte, più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l'amor di Dio con gran pianto che ci apra e mettaci pur dentro: e quelli più scandalezzato dirà "Costoro sono gaglioffi importuni; io gli pagherò bene come sono degni" e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali noi dobbiamo sostenere per lo suo amore: o frate Leone, scrivi che in questo è perfetta letizia.

 

Abbiamo letto un secondo climax, una progressione letteraria. La prima ci ha indotto a far silenzio e ad ascoltare, elevandoci dal livello della semplice constatazione dei fatti e dei sentimenti, al piano dell'attesa e della disponibilità di risposte più vere e profonde. La seconda gradazione procede per centri concentrici con passaggi nei quali non manca un sottile umorismo, frutto di chi conosce bene la nostra vita di uomini e di religiosi capaci di grandi opere ma anche di risentimento e, talvolta, di un orgoglio che sfiora il grottesco. Ed ecco la conclusione:

 

E però odi la conclusione, frate Leone. Sopra tutte le cose e grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per l'amor di Cristo sostenere pene, ingiurie, obbrobri, disagi.

 

Dobbiamo, dunque, darci da fare, essere pieni di buona volontà, rispettare norme e indicazioni. Tutto questo dobbiamo farlo, però, alla luce di una precisazione fondamentale: il bene che abbiamo fatto non può e non deve trasformarsi in un merito che lega e attanaglia la nostra relazione con Dio, quasi a costringerla lì dove desideriamo noi, come pretendeva Caino, o i fratelli di Giuseppe, o il fratello maggiore (cfr la vera preghiera).

L'equazione: impegno - merito risulta fallimentare ed è certamente smentita dalla vita, perché di costringe a restare alla superficie di una circostanza che appare contraddittoria e che ci scandalizza, inducendoci a punire il fratello nel fatuo convincimento di aver operato un atto di giustizia.

Se, invece, decidiamo di penetrare il velo del dolore che le circostanze possono provocarci, riusciamo a trovare un superamento, un "di più". È il "di più" di Dio, non quello consolatorio di chi aspetta la ricompensa futura e trova in essa la forza per sopportare a denti stretti un presente che non ha accettato e non gli piace. Non è nemmeno e soltanto il "di più" dentro il quale Giobbe ha cercato in un certo momento della sua ricerca di risposta alla domanda sul dolore:

 

Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell'abisso hai tu passeggiato? Ti sono state indicate le porte della morte e hai visto le porte dell'ombra funerea? Hai tu considerato le distese della terra? Dillo, se sai tutto questo! Per quale via si va dove abita la luce e dove hanno dimora le tenebre perché tu le conduca al loro dominio o almeno tu sappia avviarle verso la loro casa? (Giobbe 38, 16-20)

 

E' il "di più" di chi mette in comune i suoi doni e lo fa non per una benevole condiscendenza ma per manifestare il suo amore:

 

Però che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri ma di Dio; onde dice l'apostolo: "Che hai tu, che tu non l'abbi da Dio? e se tu l'hai avuto da lui, perché te ne glorii, come se tu l'avessi da te?"

 

Al di sopra di tutto, però, è in Cristo che il "di più" si svela, che il dono coincide con il donatore e la relazione non aspetta intermediari o ricompense future:

 

Ma nella croce della tribolazione e della afflizione ci possiamo gloriare, però che questo è nostro. E però dice l'apostolo "Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro signore Gesù Cristo"'. Al quale sempre sia onore e gloria in saecula saeculorum. Amen.

 

 

Cristo ci insegna con la sua vita e la sua parola a porre la gioia vera, la perfetta letizia, non nel possesso ma nel dono, non nel merito ma nel perdono. In questo ribaltamento troviamo una stabilità impossibile alla dinamiche delle semplici retribuzioni future e scorgiamo l'esultanza di chi non si scandalizza del dolore e, lungi dagli facili irenismi, sperimenta l'esultanza di vivere già nella gioia vera, quella che mise parole di canto sulla bocca di Maria, la stessa che ispirò un inno di lode alla lettera di Paolo:

 

Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, nè alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore. (Romani 8, 35-38).